Bentornato a casa, Leccapaletta

In quei giorni Franco era molto combattuto: la decisione che doveva prendere, chiudere la gelateria, era una di quelle pesanti, da togliere il sonno.
Quell’attività, messa in piedi dal nulla a Borgo San Vito, nel profondo Nord, a mille chilometri dal suo paese di origine, in Puglia, era il risultato di una scommessa di riscatto fatta a se stesso.
Non una gelateria in franchising, come si usa oggi, uguale a tante altre negli allestimenti e nei gusti, ma la sua gelateria: un concentrato di modernità e tradizione nello stesso tempo e con alcune regole fuori dal comune.
Per esempio, quando un cliente ordinava un gelato non poteva scegliere il primo gusto; quello, tassativamente, lo imponeva lui: ricotta dolce pugliese.
Dal secondo gusto in poi poteva scegliere il cliente, ma solo tra quelli che lui preparava e che a suo insindacabile giudizio ben si sposavano con il gusto ricotta.
Inizialmente non fu facile fare accettare la regola, ma determinazione e intransigenza, alla fine, pagarono e con il tempo i clienti impararono ad apprezzare tale bonaria, anzi, “buonaria” stramberia.
I prodotti che Franco usava erano a chilometro mille: ricotta, frutta, latte arrivavano con regolarità e puntualità dalla sua masseria in Puglia ed erano di prima qualità.
Ora, però, i suoi genitori si erano fatti vecchi e reclamavano il suo ritorno in paese per continuare l’attività agricola: c’erano l’orto, il frutteto, l’uliveto, i pascoli e la stalla con le mucche.
Non poteva abbandonare la famiglia, lasciare alle ortiche il lavoro in campagna di anni, fatto con passione, amore per il territorio, rispetto per la natura.
C’era d’altra parte un altro motivo che lo angosciava e rendeva difficile la decisione di chiudere la gelateria; un motivo che aveva un nome preciso: Leccapaletta, il figlio del dottor Frankenstein.
Quel giovane era da sempre il suo aiutante al banco della gelateria.
Un ragazzone alto e massiccio, con un fisico reso ancora più corpulento dai vestiti che indossava: erano sempre qualche taglia in meno e oltre a farlo assomigliare all’incredibile Hulk, andavano a scoprire strane cicatrici sul suo corpo.
Aveva un viso che…, va beh, non aveva un bel viso.
In compenso era sveglio e aveva appreso in poco tempo il mestiere; con i clienti ci sapeva fare, ma era con i bambini che dava il meglio di sé; quelli mettevano a dura prova la sua stabilità psicofisica, lui però aveva una grande pazienza, a volte più dei genitori dei piccoli.
Con il tempo, il suo aspetto fisico passò in secondo piano e tutti impararono che, se volevano il gelato, dovevano accettare il gusto ricotta dolce pugliese e di farsi servire da Leccapaletta.
Franco l’aveva soprannominato così perché quel ragazzone, a fine giornata, prima di lavarle, dava alle palette ancora impiastrate di gelato delle gran leccate e ogni volta sembrava andare in estasi.
Franco lo lasciava fare, tanto poi finiva tutto in lavastoviglie; ogni tanto però gli raccomandava di non farsi vedere dai cliente, perché diceva:
‐Il paese è piccolo e la gente… mormora!
Non poteva del tutto escludere che qualche cliente dell’ultimo minuto si fosse accorto di quella pratica inusuale; lamentele, però, mai ne aveva ricevute e quindi…
Quando a fatica e con il cuore infranto, Franco gli comunicò la decisione di chiudere la gelateria, Leccapaletta sentì il volto bagnarsi di lacrime: quel luogo era diventato la sua casa, aveva costruito amicizie con i clienti, amava i bambini che vedeva crescere sereni, avvolti dall’amore dei genitori. In quel posto aveva imparato ad accettarsi e la sua autostima era arrivata alle stelle.
E poi c’era Franco, che per lui era stato un vero padre; ed era sicuro che quel sentimento che provava fosse reciproco: lui era diventato quel figlio che Franco non aveva mai avuto.
Per cercare di dare comunque una speranza di futuro a quel ragazzo, Franco gli disse che se voleva, in qualsiasi momento, anche senza avvisarlo, poteva raggiungerlo nella sua masseria in Puglia.
Lì c’era sempre bisogno di manodopera, inoltre una stanza per lui era già pronta, gli bastava mandare a cagare quel turista che tutti gli anni ospitavano e che era antipatico a lui e anche ai suoi genitori.
E poi aggiunse che in Puglia c’erano il mare, il sole e tante ciumachelle poco pretenziose e in età da matrimonio.
‐Così magari ci sposiamo tutti due. – disse Franco stringendolo in un lungo abbraccio…

… Leccapaletta non aveva avuto una vita facile.
Sua madre era un’entità astratta, gli avevano detto che era sparita subito dopo il difficile parto; in casa però non c’era una sua foto, un ritratto che potesse almeno richiamarne il volto.
Della sua infanzia Leccapaletta nulla, ma proprio nulla, ricordava: era come se fosse nato adulto; nessuno gli aveva mai spiegato le ragioni di quel vuoto, tantomeno suo padre.
Il dottor Frankenstein, genitore di Leccapaletta, era un ex medico legale alle dipendenze dell’Autorità Giudiziaria, per conto della quale eseguiva autopsie.
Se quelle povere vittime, poco prima di trapassare, avessero potuto esprimere un desiderio, senz’altro avrebbero chiesto di non essere squartate da quel macellaio.
Ex medico legale, perché a un certo punto venne licenziato in tronco.
‐Non ne posso più di quel pazzo! – così aveva detto il giudice, ‐ Ogni volta che gli affido un cadavere, lui me lo riconsegna in mille pezzi e si giustifica dicendo che lo fa per verificare la presenza di pregressi disturbi. Ce li ha lui, i disturbi pregressi! Di quelli pesanti!
Poi, dimenticandosi per una volta del suo naturale aplomb, facendo violenza allo Statuto dei Lavoratori, al Contratto Nazionale di Lavoro dei Medici Anatomopatologi, alla sua etica professionale, al politically correct, agli insegnamenti evangelici laddove consigliano di porgere l’altra guancia, scandì, sillabandole, parole che non concedevano spazio a interpretazioni diverse o a possibili mediazioni linguistiche:
‐ Le‐va‐te‐me‐lo dai co‐glio‐ni!
Terminata quell’esperienza lavorativa, il dottor Frankenstein aveva deciso di continuare comunque ad esplorare il corpo umano, privatamente s’intende, nel laboratorio della sua casa posta sulle alture di Borgo San Vito.
Nelle sue ricerche metteva l’anima, ma non disdegnava il fegato, i polmoni, il cuore, il cervello e altro ancora.
Se ne stava nel laboratorio giorno e notte, usciva solo per i pasti, e nemmeno in quei momenti parlava con il figlio, o liberava qualche gesto d’affetto; Dio sa quante volte Il ragazzo aveva desiderato anche solo un semplice sorriso! Quel sorriso che mai era arrivato.
Meno male che non lo usava per qualche suo esperimento scientifico; o forse, pensò Leccapaletta (e senza saperlo quella volta ci aveva azzeccato), lui stesso era il risultato di un esperimento paterno riuscito solo in parte.
Del ragazzo si “prendevano cura” le tate che nel tempo si erano alternate nell’incarico.
La prima fu una signora di origine teutonica, tenebrosa e severa già nello sguardo, capace di mettere in soggezione anche un paracarro.
Se ne andò appena cambiò il sistema pensionistico con l’introduzione dell’opzione donna; dall’oggi al domani: senza dare il preavviso previsto contrattualmente, senza lasciare a Leccapaletta almeno il tempo di gioire per la sua dipartenza.
Comunque la liberazione da quell’incubo durò pochissimo, perché, addirittura in anticipo rispetto alla data prevista, arrivò la nuova tata.
Veniva dalla Svizzera, tedesca, naturalmente, e portava, in formato europeo, un curriculum vitae da paura (che il dottor Frankenstein subito giudicò interessante): aveva lavorato in un istituto di correzione minori e poi aveva diretto vari collegi per minori disadattati.
Diceva che sotto di lei era passata anche Heidi, a suo dire una stronzetta su cui aveva sperimentato tutti i modelli educativi collaudati nell’istituto di correzione, e che alla fine aveva spedito in montagna a far compagnia alle caprette e a un nonno in avanzato stato di demenza senile.
Leccapaletta era come un bambino, ma non gli ci volle molto a capire che, quel nonno, le caprette, per Heidi erano state la sua rinascita…

… Senza la vicinanza di Franco, senza il lavoro in gelateria, il ragazzo cadde in quel buco nero comunemente chiamato depressione.
Rimaneva in camera tutto il giorno e aveva fatto del letto la sua casa.
Se ne stava sdraiato ad ascoltare una canzone, sempre la solita, che diceva: “Metti un po’ di musica leggera perché ho voglia di niente, anzi leggerissima…”
Rifiutava il cibo che la tata svizzera gli preparava con scarsa fantasia e poco amore: wurstel con patate bollite e crauti viola crudi.
Dopo una lunga discesa verso il baratro, decise che doveva cercare di uscire da quella situazione e cominciare a risalire.
Ripensò alle parole di Franco e…
La notte in cui decise di partire, entrò senza bussare nel laboratorio del padre e lo colse mentre stava facendo un “esperimento scientifico” con la tata svizzera.
Erano stesi, in uno strano intreccio, sul tavolo per le autopsie.
Il dottor Frankenstein portava un completino in vinile, con trasparenze sul petto e in altre parti meno nobili, la tata invece, in pendant con lui, aveva il corpo stretto da cinghie di cuoio con borchie appuntite e un frustino tra le mani.
‐Basta! Me ne vado da questo carcere! – urlò il ragazzo
Il padre, colto di sorpresa e in evidente imbarazzo, non proferì parola, anche perché non aveva avuto il tempo di liberarsi dalla pallina d’acciaio che teneva in bocca legata da una corda annodata all’altezza della nuca.
La tata invece, tutt’altro che sconvolta, pronunciò parole che lo fecero alquanto imbestialire.
‐Vfai fare compagnia Heidi e zue caprette?
‐No! rispose secco Leccapaletta, ‐Vado dove c’è il mare e il sole, vado dove non ci sono domestiche che di giorno fanno le tate naziste e di notte le zoccole!
Ciò detto, senza lasciare a Sodoma e Gomorra il tempo di replicare, uscì di casa deciso a non farvi più ritorno.
Il viaggio verso la Puglia durò diversi giorni; sperimentò sulla propria pelle il pessimo funzionamento del sistema ferroviario; Trenord, Trenitalia, Ferrovia Sud Est, una fazza una razza: ritardi, cancellazione, guasti, affollamenti, sporcizia.
Arrivò a notte inoltrata alla stazione del paese di Franco; rimase fuori dalla sala d’attesa (dentro c’erano già una dozzina di persone stese sulle panche di legno) e quando cominciò ad albeggiare s’incamminò verso la masseria di Franco.
Arrivò che il sole era già alto e faceva un caldo assassino.
Bussò ripetutamente; dopo alcuni minuti la porta si aprì e di fronte a lui si palesò una signora molto anziana, in pigiama e con una bandana in testa.
‐Ci è? – chiese.
‐Frankenstein! ‐ rispose il ragazzo.
‐Devi alzare la voce, non tanto sento.
‐Frankenstein! – urlò lui.
A quel punto la donna si voltò verso il marito che stava in cucina a fare colazione (l’unico momento della giornata in cui non tanto amava essere disturbato) e chiese:
‐Tonì!
‐Ci vu da me? ‐  rispose lui alquanto contrariato.
‐Franco stein?
‐ No, Franco no stein, Franco se ne ‘scito!
‐Vabbè, posso aspettare qui fuori. – propose Leccapaletta.
‐ Ma no, vieni dentro, che fuori fece caldo a murte; occhio al gradino che ancora cadi!
A lui non sembrava di essere già caduto, comunque facendo molta attenzione al sobbalzo entrò nella fresca casa.
La donna lo fece accomodare al tavolo della cucina insieme al marito.
‐Aspetta qui, ancora esco il caffè.
L’uomo alzò lo sguardo e poi spinse verso Leccapaletta una grossa ciotola.
‐Piglia! E’ gelato al gusto ricotta dolce; roba nostra: buona e fresca.
‐Già lo so! ‐ rispose il ragazzo.
Al centro della ciotola, ben piantata nel gelato, c’era una di quelle palette d’acciaio che lui, per tanti anni, aveva usato in gelateria.
Quante leccate che gli ho dato! ‐ pensò ‐ liberando un sorriso che all’uomo di fronte a lui non sfuggì e che, senza proferire parola, ricambiò.
‐Simpatico sto guaglione! Come hai detto che si chiama? – chiese alla moglie quando rientrò con il caffè.
‐Leccapaletta! – rispose Franco, che nel frattempo era rientrato.
‐Leccapaletta si chiama!
Poi, posando con delicatezza la mano sulla spalla del ragazzo, aggiunse:
‐Bentornato a casa, figliolo.