Ardore d’ombre intrecciate
Nel grembo muto dell’attimo profondo,
ove le dita son radici di sete,
si disvela la carne in preghiera,
strozzata di luce e lussuria sommessa.
Braccia come serpi d’ambrosia,
torcono il silenzio in gemiti di marmo,
e la pelle—velluto trafitto—
diviene altare d’un fuoco clandestino.
Là dove il respiro si fa grido sepolto,
e il desiderio s’incarna in rovina sacra,
s’aggrappa l’anima all’abisso del petto
per annegare nel battito dell’altro.
Non è più corpo, ma eclisse che implora,
non è più tocco, ma fame che scolpisce
un tempio di mani, di graffi, di cieli
che urlano muti nel buio dell’estasi.
Fammi rovina, radice e roveto,
che ogni sospiro sia un canto che brucia
nell’ombra serrata del nostro diluvio.