Un uomo solo
Porto addosso la polvere
di un crollo che non ho sentito,
macerie di una stanza
dove non ho mai dormito.
È questa la condanna:
ereditare il buio
senza aver spento la luce,
sentire nelle ossa
il freddo di inverni altrui.
Le pareti qui sudano ancora urla
e la carne si scolla dall'anima
come intonaco vecchio,
malato di salmastro.
Hanno mangiato il cuore della casa
e a me hanno lasciato le posate sporche,
il conto da pagare è la vergogna
di chi sopravvive per sbaglio.
Mi guardo le mani,
sono piene di calce e di tremore.
Non ho rotto io il vaso,
ma sono io che mi taglio
per incollarne i pezzi.
C'è un tanfo di birra acida e santità,
la fatica bastarda di alzare un muro
quando la terra sotto
è solo sabbia e vetro.
Sono un estraneo che mi abita dentro,
un contabile di disastri non miei.
Si sta in piedi per vizio, forse,
o per quella stupida,
oscena voglia di vedere
se domani tra i sassi
fiorisce almeno un'erbaccia.
Tutto è stato distrutto,
eppure,
nel silenzio che leviga i sassi,
ricomincio da un chiodo,
da un respiro,
dalla solitudine immensa di essere,
finalmente,
soltanto me stesso.