Avorio
Era la prima volta che mi accingevo a entrare in quel palazzo, sebbene lo conoscessi già, almeno da fuori. Ci ero passato davanti molte volte, trovandosi in un punto nevralgico della città, nella nota via Roma, ovvero, via Toledo. Da quando vivevo a Napoli, non avevo ancora ben capito come si chiamasse quella strada, c'era chi usava il primo toponimo e chi il secondo e qualunque dei due utilizzassi, mi capivano.
“Me lo farò chiarire da Togni” mi dicevo sempre, quando l'attraversavo, dimenticandomene puntualmente ogni volta.
Doveva essere un edificio antico, del settecento, al massimo dell'ottocento, forse di stile neoclassico; non mi intendo di architettura. Ma di sicuro le due colonne, che affiancavano il portone d'ingresso, erano doriche. La famiglia che vi risiedeva, era alquanto nota: i Soriano‐De Filippo. Ne conoscevo un paio di Soriano, e solo di nome il famoso avvocato Tonio.
Io e il capitano Guerrini ci guardammo, poi mi decisi a bussare. Attorno a noi, sebbene il cielo avesse concesso una tregua, aleggiava ancora il fresco del temporale che aveva tormentato Napoli alle prime ore dell'alba.
Ad aprire fu una donna sui quarant'anni, capelli neri e raccolti, magra e appena bassa. Già tutta in nero.
Ci presentai: — Sono l'ispettore Milo Modigliani e lui è il capitano Nicola Guerrini.
Lei fece altrettanto e così sapemmo che era Maria la governante. C'informò subito che aveva avuto l'ordine di accoglierci e servirci. La casa, ricca di mobili di un certo valore, illuminata da poche lampade, era in pieno silenzio e aveva le tende chiuse, sebbene dovessero provvedere a stendere ancora il drappo nero.
La notizia non era stata data ai giornali né comunicata ad altri, almeno per il momento. La dinamica, raccontatami dai colleghi carabinieri, non aggiungeva certo prestigio alle suddette famiglie. L'Arma, così tanto amata dal governo, aveva passato il caso a noi della polizia, non ritenendolo di particolare rilevanza. D'altronde, da quando al potere c'era Mussolini, noi eravamo scesi a un gradino inferiore, rispetto ai carabinieri.
I becchini erano già intenti a preparare la camera ardente, ma sapevano di non poter muovere il cadavere dal suo posto, almeno non prima della nostra venuta.
La governante, mesta e con gli occhi arrossati, c'invitò a entrare nello studio, dove si era consumata la tragedia. Qui trovammo il medico legale, seduto a un piccolo scrittoio, a compilare un documento. La luce, a mio parere, non era sufficiente.
La prima cosa che avevo avvertito entrando, era stato il profumo citrico delle azalee, che doveva servire evidentemente a coprire l'odore della polvere, adagiatasi sui tanti tomi stipati ovunque, in maggioranza di medicina e qualcuno di legge. La lana, che nell'artistico intreccio dei suoi fili creava degli incantevoli disegni floreali, mostrava una colorazione più scura al centro del tappeto. Il pennino, abbandonato accanto alla macchia, molto probabilmente era rotolato giù dalla scrivania e aveva ceduto il restante del suo contenuto al pavimento. L'inchiostro andato perso, benché avesse danneggiato il prezioso manufatto orientale, aveva svolto un compito meno ingrato di quello che, modellato in graziose lettere, aveva sancito su un foglio le ultime parole di uno dei personaggi più illustri di Napoli. Adesso tale personaggio se ne stava col capo inclinato verso sinistra, in una posizione del tutto innaturale. Persino il sonno concede un certo contegno di postura, anche quando coglie di sorpresa su una poltrona. Ma la morte no! La morte ci toglie dignità, ci fa perdere il controllo su quanto ci è appartenuto in vita, chiunque siamo stati sulla terra!
Quel corpo si era abbandonato come un fuscello strappato dalla propria pianta. I riccioli coprivano parte del volto e un occhio. Il colpo era stato sparato alla tempia destra, dove ora c'era un'angosciante macchia di sangue coagulato.
— Lucas De Filippo. Peccato! Una delle menti più brillanti della città. — commentai.
Lo avevo incontrato due volte. La prima a casa della contessa Di Sangro, durante una festa, accerchiato dalle benestanti signorine della buona società partenopea. La seconda nel suo studio in ospedale. Nonostante la giovane età, aveva curato molti personaggi noti ed era entrato effettivo agli Incurabili già da tempo.
Mi fermai a ricordare la prima.
*
Lui rideva con le sue corteggiatrici, ma ogni tanto mi lanciava un'occhiata; forse aveva notato la mia difficoltà a restare seduto. Lasciò le signorine e mi si avvicinò: — Avete mal di schiena?
Annuii con un leggero fastidio nella voce. Mi fece alzare, sollevò la camicia e prese a tastarmi: — Siete ancora giovane per avere problemi seri. — mi disse. Non so neppure io come fece, con un movimento deciso delle mani mi risolse il problema. Ritornando davanti a me, riprese: — Passate fra qualche giorno al mio studio agli Incurabili, così vediamo come va.
*
Ci ero andato, poi, con la schiena in perfetta forma e lui non volle essere pagato.
“Una vita e una carriera spezzate!” mi rammaricai e non credevo affatto possibile un atto simile da un uomo come lui. Guardai la pistola a terra, a destra della poltrona macchiata di sangue; a catturare particolarmente la mia attenzione fu l'impugnatura avorio.
— Molte menti brillanti finiscono così, con un gesto che per noi sembra incomprensibile, ma che nella testa del suicida aveva già preso forma con una fitta serie di pensieri fuori da ogni logica. — rispose il capitano Guerrini, in forza alle milizie cittadine, che mi accompagnava spesso per controllarci su ordine del governo: — Si dirà che aveva una brava e bella moglie, una vita invidiabile, che lo amavano tutti, un genio nel suo lavoro e non si capirà mai il motivo di tale gesto.
— E queste cose su di lui, — continuai — si diranno fino a quando tutta la storia non sarà dimenticata e la vedova resterà sola col suo dolore.
— Sono proprio le vite invidiabili ad avere più segreti. — rispose il medico legale, raggiungendoci. Ci conoscevamo già, ci salutammo e lui ci aggiornò sulle condizioni del cadavere: — È morto tra le due e le quattro di notte, il corpo era nella stessa posizione che vedete. La ferita d'ingresso è situata, come avete potuto notare, sulla tempia destra; ha delle bruciature, segno che il colpo è stato sparato a distanza ravvicinata, classico dei suicidi. Non sono presenti segni di difesa sulle mani e sulle braccia. La ferita d'uscita è localizzata alla tempia sinistra, con danni estesi al cranio. A mia interpretazione, data la posizione del foro di uscita e, ovviamente, il decesso, il proiettile ha attraversato sezioni cerebrali di estrema importanza, causando danni di rilievo, con, per sua fortuna, la morte immediata. Non ho trovato altro che testimoni problemi di diversa natura. La causa del decesso è sicuramente dovuta a lesione cerebrale traumatica, ovvero, trauma cranico da ferita d'arma da fuoco, ma sarà l'autopsia a darci ulteriori chiarimenti.
Guerrini girò attorno alla scrivania, sulla quale giacevano gli oggetti appartenuti al dottore, e fermò lo sguardo su quel corpo ancora troppo giovane per subire il deterioramento fisico, che lo avrebbe ridotto solo a un mucchio di ossa e col tempo in cenere. Già, la vita di un uomo può durare molto, terminare presto, essere mediamente accettabile, ma madre natura si prende uguale tempo per tutti nel far sparire per sempre i resti umani.
— Suicidio, dunque. — affermai.
Il medico mi fissò, per poi ritornare con lo sguardo sul dottore: — Io vi ho parlato del quadro clinico, lo studio della scena tocca a voi.
— La posizione è compatibile con un suicidio?
— Sì, considerando che la poltrona ha uno schienale basso e il bacino è leggermente avanzato in avanti rispetto alla testa. Si è accasciato su sé stesso, non avendo la spinta necessaria per abbassarsi sulla scrivania.
Scrutai il resto della stanza, quasi in penombra, togliendomi dagli occhi il ciuffo castano per una visione più accettabile.
— Come hai fatto a lavorare con così poca luce? — gli chiesi.
Lui, riponendo gli strumenti, replicò: — Spesso lavoro in situazioni peggiori. Ormai non ci faccio più caso. Sei giovane, farai anche tu esperienza.
Mi rivolsi alla governante, che se ne stava in un angolo a piagnucolare: — Ho bisogno di maggior luce.
Lei, evitando accuratamente di guardare il cadavere, andò ad aprire le tende.
— Io, per adesso, se posso semplificarmi la vita, lo faccio. — dissi rivolto al dottore.
La luce del sole mattutino c'inondò tutti e illuminò il misfatto da poco consumatosi. Il pianto della donna aumentò infastidendomi.
— Non si sente nulla. Dov'è finita la famiglia? — chiesi alla domestica.
Rispose il medico: — Be', dovevi essere qui quando sono arrivato io. Ho dovuto dare qualche calmante e mandare via tutti: non mi facevano lavorare. Per fortuna c'era Domenica Soriano, la sorella dell'avvocato, che mi ha aiutato. La moglie del dottore, invece, credo che non se ne sia ancora resa conto.
— Che vuoi dire?
— È una reazione non inusuale di fronte a tragedie improvvise come questa, soprattutto se fra la superstite e la vittima c'è stato un grande affetto.
— Dovrei parlare con la signora. È possibile? — chiesi alla governante.
— Vado a chiamarla. — rispose lei, tirando su col naso.
Nel frattempo iniziai con i controlli di rito, ma tutto faceva pensare, come le parole del dottore, a un suicidio.
— Sola, senza marito, — precisò Guerrini, riallacciandosi al nostro discorso di poco prima: — ma so che la sorella le è molto legata. Le due hanno deciso di abitare a pochi metri di distanza, proprio per restare sempre unite. Sono state educate nell'amore e nel rispetto da una madre di gran valore.
Mi massaggiai la mascella: — Due angeli, dunque? Non crede? Visto che mi parla bene di entrambe da che ci siamo visti. Mentre noto che guarda il dottore in modo sprezzante. — dissi appena seccato. Non credevo nelle brave persone. Ogni uomo ha, almeno una volta nella sua vita, commesso qualcosa da non andarne orgoglioso.
Il capitano fece spallucce e dopo avermi detto che aveva visto De Filippo sempre troppo sicuro di sé, mi ricordò che il Lei, benché non ci fosse ancora alcuna legge in merito, non era tanto gradito al governo. Affermò di seguito che quanto sapeva di quella famiglia, erano chiacchiere udite in giro.
“Ogni chiacchiera parte sempre da una verità che poi viene modificata fino a renderla irriconoscibile.” pensai.
Erano molto apprezzati i Soriano: un capostipite magistrato, un figlio avvocato di successo e un genero altrettanto noto e stimato. Donne cristiane, rispettabili e su cui mai nessuno aveva avuto da ridire. Per non parlare dei De Filippo: una famiglia ben voluta ovunque si andasse. Qualche pettegolezzo mi era arrivato all'orecchio, soprattutto sulla figlia più grande dell'avvocato, ma in certi ambienti, e soprattutto a Napoli, non sai mai dove finisce la verità e inizia la fantasia.
Antonio Soriano, detto Tonio, era un brillante avvocato dal passato sentimentalmente burrascoso e sua moglie, Alma Soriano, si era battuta più volte per i diritti delle donne.
La governante rientrò tremante e portò, sconvolta, la mano alla bocca: — Scusate, — disse — non riesco a crederci, proprio ieri sera mi ha regalato quel suo bel sorriso, ringraziandomi per il caffè. La sua voce dolce e profonda mi risuona ancora in testa.
La tazzina era sulla scrivania, svuotata del suo contenuto, con lo zucchero ambrato seccato nel fondo. Al giovane medico il caffè era sempre piaciuto dolce. Alla festa della Di Sangro gli avevo sentito dire — Ci pensa già la vita a essere amara.
Avevo attribuito quelle parole alla sua velleità di una vita fatta solo di belle cose.
“Come si può bere caffè prima di andare a dormire? Mah!” mi dissi e informai la donna che avrei dovuto interrogare anche lei e, se presenti, gli altri domestici. Nel frattempo le domandai perché non avesse ritirato la tazzina la sera stessa. Mi rispose che De Filippo le aveva chiesto di non disturbarlo per tutto il resto della serata.
— Sapete, quando era intento a fare le sue ricerche mediche, non voleva mai nessuno attorno. — aggiunse con sguardo malinconico, per poi dirci: — La signora De Filippo è indisposta, c'è il suo medico con lei ma, se volete, potete parlare con la sorella, la signora Dell'Uomo.
Il medico legale si avvicinò con un foglio: — Be', io vado. Per qualsiasi cosa, sapete dove trovarmi. — affermò, lasciandomi una copia delle sue dichiarazioni.
Mi guardai attorno, cercando dell'altro, ma la mente andava sempre a quell'impugnatura avorio. Feci segno a Guerrini di scattare le foto.
— Per adesso può andare, ma avremo bisogno di vedere anche la signora e che sia entro oggi stesso! — replicai scocciato. Certi rimandi mi provocavano l'orticaria. L'inserviente annuì e ci fece strada, recando una lampada cupa. Passando di nuovo accanto alla sala delle cerimonie, vidi i becchini ancora in attesa, mentre parlavano a bassa voce. Uno di loro si voltò verso di me ed ebbi la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Ma fui io che, fermandomi appena sull'uscio, affermai: — È inutile che perdiate tempo, il cadavere sarà trasportato da noi in ospedale. Per la camera ardente dovete aspettare.
Ripresi il passo.
La figura che scorsi subito, entrando nel buio salone di famiglia, era di una donna sfatta; seduta su una poltrona, tentava di reggere una posizione dritta, con il gomito sul bracciolo e le dita alle labbra. L'altra mano era abbandonata sulle gambe; gambe che, dalla lunga gonna di seta rosa, apparivano bene affusolate. Il seno grosso prorompeva sotto la scollatura. Sembrava al tempo stesso più uno spettro che un essere umano, un'ombra impalpabile, che poteva sparire da un momento all'altro.
Notando la luce e sentendo i passi avvicinarsi, la donna sollevò gli occhi umidi, fermandoli con rimprovero sui nostri volti. Era veramente bella! Capelli appena sulle spalle, sbarazzini, occhi grandi e profondi e un volto ovale e pieno da riempirlo di baci. Dal suo stato di sofferenza sembrava lei la moglie.
(Parte del primo capitolo del romanzo Le dee del male ‐ Cartaceo ‐ Ebook e Kindle Unlimited)