Cascate di Sangue
Ho sonno ma non ne ho, è notte fonda, vorrei dormire domani ho il lavoro, ma non ho una particolare inclinazione a dormire ora, anzi ultimamente soffro di un accentuarsi di insonnia, da qualche giorno. In pratica non ho sonno stanotte. Che frustrazione, ho un sentimento di stasi, i giorni estivi passano e non sono capace di fare niente di ciò che vorrei fare. I doveri che mi sono dato li sto compiendo a fatica, il lavoro è una rottura per una paga magra, mi dà davvero noia poi, le festa a cui mi ha invitato la mia amica Anna. Domani ho prima il lavoro, poi ho una festa, ma in testa mi vengono meno sinceramente questi impegni, quanto quanto vorrei dormire ora. Chiudo gli occhi stringendoli pesantemente, segue attentamente la narrativa dei miei pensieri, immagino il buio, lascio un podcast sulla statistica di sottofondo, è un'abitudine che ho per prendere sonno, forse passa una decina di minuti, infine sprofondo.
Il giorno dopo, immagino, c'è il sole che splende, ed un sacco di neve, l'aria fredda e il vento che mi smuove i capelli, già scalpito, mi sono appena svegliato sollevando le candide coperte di neve. Lancio uno sbadiglio profondo. Il mio volto è freddissimo, i miei occhi sono blu, uno zaffiro brillante li fa invidia. Infine mi alzo e sono l'unica sagoma in questa distesa bianca. Una coperta ancora più lunga, ancora più grande. Ma si fa sempre più freddo, il sole palpabile splende ancor di più, ma non ha lo scopo di fornire calore, è solo un abbagliante che riempie lo spazio, il cielo leggiadramente azzurro si fa bianco, vi tende lentamente, mi guardo intorno girandomi per destra e per sinistra, ma pian piano le posizioni si fanno piatte. È tutto abbagliante, è tutto freddo, anzi è solo solo vuoto... Ma qualcosa sporge in realtà, tra la realtà che si assottiglia cronica, i piedi mi si muovono, passa solo un attimo ma già faccio chilometri, e quel neo grigio che avevo visto sporgere da lontano ora si fa più chiaro. Il sole è abbagliante. Continuo a sollevare i passi dalla neve, ma non sono più io a smuovermi, anzi lo spazio assottigliato non distingue più quelle posizioni schiacciate. Ed immobile assisto inerme, nel freddo della neve. Splende il sole. Mi guardo attorno, risollevo il volto avanti.
(Baaaam)
Impatto, di colpo mi si propina davanti, si avvicina vicinissima questa immagine, montagne di neve, su una rigida base di grigio, e il mare esce da sotto con le sue catene. Ho i piedi bagnati, vi si legano tutte le appendici. Ma davanti è un impatto spaventoso, è stato veloce e ora è di nuovo tutto immobile. Questa immagine davanti, le cascate di sangue, è un evento particolare che si svolge in Antartide, su un fianco a Sud‐est del continente congelato, acqua ipersalata ricca di ossido di ferro sfonda le pareti di alcune montagne. Sembra davvero sangue.
(Forte rumore di vento).
È un sogno, è stato quello che ho sognato, ma ora sono sveglio. Perché ho sognato quest'immagine? Non ne avevo mai sentito parlare di queste "cascate", eppure le conosco? Non comprendo...
Però è tardissimo, il mio lavoro chiama. Non posso fare ritardo, deve preparami immediatamente, correre! Mi sono preparato davvero velocemente, il mio passo spedito si è tramutato in una corsa sgraziata, nonostante la fretta il ritardo di cui sto peccando ormai mi duole la visione del tempo. Già è tardi, mi sento di nuovo immobile. Corro ma ancora non arrivo a niente, il gigantesco palazzo dove si trova il mio ufficio è a 10 minuti circa, di meno se continuo così. Ma finché non arrivo mi sento fermo, in stasi, in inerzia.
Sbatto gli occhi pesantemente, con energia, finalmente sono in ufficio, sulla mia sedia girevole, in cui posso spostarmi da destra a sinistra, tendere leggermente in basso e poi riguardarmi davanti. Qui parte il cipiglio del lavoro. Lo schermo del computer raffigura i magri schemi su cui devo lavorare, campionari bianchi, grafici spezzati, valori in successione. Il grafico su cui sono in questo momento parla dell'uso dei motori di ricerca, la diffusione in ogni Paese, l'abitudine e la tendenza degli utenti. Devo farne dei reel da pubblicizzare nel canale YouTube dell'azienda. Un lavoro di copywriting patetico. L'aria è umida, la luce bianca lattea, che scende, lo schermo comunque si vede bene, i lineamenti della scatola lo distinguono dalla scatola più grande. Le linee del grafico si presentano nere, ricordano una montagna, il font sottile e nero, l'andamento dei dati, corre in su e in giù, il primo valore che spicca è quello della soddisfazione degli utenti nell'uso di tali software. Una linea rossa che sfonda lo schema, cade a picco, distrugge tutto. X. Ho chiuso la pagina per sbaglio! È stata una svista sulla tastiera, un mal concepimento delle dita. La riapro in un lampo, da dove il lavoro si era salvato e proseguo, riappare quello schema, con la linea di rosso grossolano si alza di nuovo, con quel tratto imponente e profondo. Sembra che fuoriesce dallo schema, anzi, sembra, sembrano le cascate di sangue che ho sognato stamattina. Aspetta, ancora queste benedette cascate? Perché?
Non ho tempo da perdere devo usare il mio tempo per lavorare e finire questo noioso turno.
Tornato a casa cerco sul cellulare... quell'immagine, digito soltanto quelle parole che avevo coniato, quel nome che avevo presupposto per quell'immagine, cerco nella barra, con un pelo di noia per la connessione lenta, e... non ho inventato alcun nome... l'ho azzeccato, si chiamano propio così eccole. Le cascate di sangue situate.... se mi sposto alla sezione immagini... ma! È identica, c'è l'immagine del mio sogno, ma prima di stamattina non l'avevo mai vista! Come ho fatto a sognarla allora?
L'aria è sempre umida, e il sole estivo è offuscato dalla poltiglia delle nuvole centrifugate dal caldo, il cielo è molto più bianco di quanto dovrebbe, di come mi piace vederlo più che altro. Ma è ora? Si lo è, sono in ritardo nuovamente, c'è la festa di Anna dall'altra parte della città, c'è sempre questa fretta attanagliante in ogni punto della mia lista. Sono tutte faccende da sbrigare queste noiose attività. Ma non posso fare diversamente, devo mantenere la faccia non posso macchiare l'etichetta, ne va della mia reputazione.
Così arrivo alla fermata del bus, con largo anticipo in realtà, e di nuovo l'umidita dell'aria mi lascia liquido, come a mollo, e nello spazio ciò che vedo riprende lento. Una fila di macchine bianche scorre per la strada, da un lato a l'altro, di sinistra in destra, e riabbasso lo sguardo poi delicatamente lo riporto in alto e di colpo il bus è davanti a me. Salgo, timbro, mi siedo beatamente al mio posto, il bus è vuoto, non ricordo l'utenza nell'orario pomeridiano ma in un grafico che mi fu essegnato una volta era proprio sull'indice di gradimento dei mezzi di trasporto e la fruizione delle linee. Gli abitanti del centro borghese erano i più scontenti e negativi, anche se proprio loro sono quelli che non ne fanno un ampio uso. Ad ogni modo il bus dell'inoltrato meriggio è vuoto. Sbattono i pezzi di metallo di questo catorcio, decadente, chiudo le palpebre e quel che si vede, dal fondo del bus, nello schermetto della prossima destinazione, è quell'immagine, le cascate di sangue. Niente.
Giungo alla festa, finalmente, già si sente lo schiamazzo che mi attende, volti mezzi sconosciuti brulicanti di interazioni vuote, mosse già programmate e ripetute, una volta mi fu dato l'incarico di scandagliare le abitudini del presentarsi che hanno le persone del paese, quali frasi, gesti, toni erano i più comuni. Lo feci molto tempo fa, mi coinvolgeva all'inizio il mio lavoro, ora sono prossimo alla fine dei trent'anni insofferente a tutto. Già so che mi annoierò a questa festa, il tempo è di nuovo immobile ma fluttuando tra questo passaggio sottomarino arrivo nel salone, gli occhi di Anna sono molto più blu di quanto li ricordassi, ha un abito candidissimo, bianco totale ed è prevalente sul suo viso un'espressione di accoglienza, ma non mi appare calda, traspare solo in superficie. Ho un presentimento di freddo che mi attraversa le ossa. Non è raro, vivo da molto tempo questa sensazione. Il salotto vive di una luce bianca, i toni castani del pavimento giungono sotto un tappeto di medesima pelliccia, Anna mi allunga la sua piccola mano, mi porta nel suo giardino dove prima udivo gli altri invitati e dove si svolge il rinfresco. Tutti bevono, con semplice moderazione, c'è pane di semola e un buffet ordinario, semplici salumi, mozzarelline, insalata di mare, nasi di foche, cubetti di ghiaccio, palle di neve, l'insalata è congelata, l'acqua è freddissima, c'è sparpagliato lascito di nevischio. Pure Anna mi sembra più ordinaria del solito. Che noia. Me ne resto seduto in disparte, la mia parte di socialità dura il tempo di presentarmi, sentenziare qualche buon complimento da manuale, ma impaziente non ci vuole molto che mi congedi, di conseguenza trovo un angolo apatico e gelido dove posarmi, quasi quasi per sprofondare nei pensieri.
Però ben presto il cielo si rannuvola e il volto degli invitati pecca della loro malleabilità, non c'è più un sorriso bensì grandine a palate che cade sui semplici salumi, nelle mozzarelline, tra l'insalata di mare, sui nasi di foca, ghiaccio nei cubetti di ghiaccio, le palle di neve si sfaldano e l'insalata di ghiaccio nasconde foglie di un commestibile passato nelle sue profondità. L'acqua cade giù dal tavolo ed inizia a sgorgare, i colpi sul mio corpo iniziano a farmi tremare e per un picchiettio alla testa chiudo di colpo gli occhi, li riapro, mi inganno per attimo, no... avevo visto quell'acqua sgorgante tramutarsi in rosso, no no, è il vino accanto anche esso caduto e nell'azione di spargersi. Una cascata di sangue su uno scenario antartico. Mi colpiscono di nuovo in testa, ma è Anna stavolta, anzi indispettita mi sprona a ripararmi immediatamente senza che lei debba picchiettarmi in testa una terza volta. Di conseguenza la seguo al riparo.
Tutti gli invitati cominciano a congedarsi e ad abbandonare la nave, finiamo per restare solo io ed Anna, il tempo si annebbia di un velo bianco, come comunicasse uno sposalizio del cielo, ogni antro è calmo. Anna stanca si chiude le portefinestre dietro, poi le finestre in alto, all'altezza dei piedi la scappatoia del cane e torce il pomello contro la chiave. La casa è completamente chiusa. Anna più piccola che mai si avvicina, nel suo vestito lindo e più bianco, con il suo viso olivastro che a confronto con il cielo nei suoi occhi azzurri, sembra un misero chicco di cacao. Le sue mani si avvicinano sulle mie come macchie, mi prende. I suoi occhi celesti sono puri quanto il cielo nella terra del fuoco, nel profondo Sud cileno, più in basso mi pongo con lo sguardo e lei mi fissa. Di destra in sinistra, mi abbasso, volo negli occhi, lei mi si aggrappa, comincia a parlarmi. Dice di amarmi, di aver aspettato tanto questo nostro colloquio, sotto la mia sfuggenza c'è un tenero strato di vita, dice, io le ricordo un mite quadro sull'antartide. Tremante mi discosto, le chiedo quale... quale in particolare? Allora lei estrae il suo cellulare e sul lindo schermo le linee prendono viso, anzi, un mostro, mostrano le cascate di sangue.
Sto impazzendo, ora grido come un matto! Anna spaventata si scusa, chiede in lacrime se è colpa sua, cos'è che mi ha mostrato? Non ne ho idea neanch'io, ma non mi controllo, sto impazzendo in un tornando di rabbia, accenno il passo e barcollo verso la cucina, casco su un cassetto, stringendo il pomello lo porto giù con me e tutte le posate riposte in esso, fredde, cadono su di me ed il rumore sul pavimento è quello di stalattiti che cadono e ghiaccio che si frantuma. Il mio corpo scalpita, come quando mi sono alzato dalla neve nel sogno, stringo i pugni, Anna si avvicina per alzarmi, mi prende da sotto le spalle, stringendosi di nuovo, scoppio di rabbia, la respingo con tutta la mia forza. Le mie mani la trapassano irrefrenabilmente, la carne è trafitta, agitatomi nella confusione non me ne sono accorto, imbraccio un coltello, adesso tutto sporco. Ed Anna fioca punta di candela, muore dinanzi a me, mi osserva con le pupille fise, perdendo lentamente la forza per mantenersi. Ho gli occhi in lacrime che sbattono, lei nel suo abito bianco, la sua pelle grigia e olivastra, il sangue che le sgorga come una cascata, i suoi occhi zaffiri calati quanto il cielo. Nessuna parola l'accompagna mentre muore, questo quadretto è quell'immagine, non è possibile, non sta succedendo...
Cos'è? Cos'è? Cos'è?
Rotolo come un sasso fuori da quel buco.
Tornato a casa è lì inerme e seducente la luce curiosa dello schermo del computer, non l'avevo lasciato acceso, l'avevo spento senza dubbio, tutto è spento in casa, non è possibile... Attraverso il varco della stanza, è lì, inchiodante e repellente l'immagine delle cascate di sangue. È confusionario fino alla follia!
È perché non ho mai dato sfogo a tutto lo stress, non ha senso ma non importa, bandiera bianca allora dichiaro la mia pazzia. Sono pazzo! E pericoloso! Stringendo l'opaco nello schermo opaco si scorge il mio riflesso nel bianco promulgato. Gli occhi ballano. Forse è il mio ultimo attimo di presunta coscienza. Accendo la stampante, prendo i pennelli e le tempere.
Mi sbatto la porta dietro, non chiudo niente, girerò per la città iniziando a dipingere quest'immagine, ovunque,
non c'è altro di valente nella mia vita, la mia mente è soggiogata a ciò, anzi mi fa sbocciare come il papavero blu dell'Himalaya, il fiore più freddo che c'è. Ma è solo un esempio io vivo persino in Antartide ora. Appendo tutte le mie fotocopie, sui pali, sui muri, sulle calotte, le stalattiti elettriche e luminose, gli ammassi di neve con il parabrezza di ghiaccio e le ruote, mi muovo libero per le piste da scii su cui parcheggiano. In ogni parete, in ogni angolo, ci deve essere quest'immagine, non vedo altro. Chi mi pizzica, mi è caduto un'altra chicco di ghiaccio in testa. No, a quanto pare è una vecchia che parla la lingua degli orsi e si lamenta che io dipinga la ringhiera della sua tana, si fa la borghesotta e la definisce portico. Fin dalle mie ricerche ma anche nell'esperienza personale, quanto ho sempre odiato questo quartiere. Anzi ho sempre odiato tutti, perché non l'ho mai ammesso né mi sono sfogato. E tu fai silenzio, (Baam). Bene non mi disturberà ulteriormente, non posso transigere dal mio scopo, questo è il mio lavoro ora. Il mio lavoro riprende ma che succede, altre seccature? (Rumore delle sirene). Sono le balene della polizia, chi ha chiamato le orche, perché le orche usano il canto delle balene invece di mangiarle. Devo scalcinarmi da qui.
C'è la tana del vecchio lavoro, quella caverna di Platone blanda e noiosa.
Apro la porta con gli artigli infischiandomi della chiave nella mia sacca di grasso. Mi stanno col muso dietro la coda, (ruggito da orso ripetuto due volte). Io non ho cacciatori!
Salgo le rampe di neve, entro nei varchi delle cavità di cemento scavate da questi pinguini col colletto. Giungo nel mio spazio, il mio antro privileggiato, dove ho lasciato le carcasse di pesce e mi lustro gli artigli neri sulle zampe. (Ruggito da orso). Avanzo in fondo, storco il naso dato l'odore di avanzi, la neve ruvida fatta a sottili rettangoli mi striscia sotto i palmi, con le sue scritte in stampatello. Il sentiero finisce sullo sbocco verso l'esterno, una... finestra? Cosa significa questo nome? È una buco trasparente che si apre ponendo pressione. Ora l'aria mi investe, aria fredda d'antartico che invade la calotta. Di fianco frammenti sulla parete riflettono il mio aspetto. Il mio manto bianco, il muso allungato e le fauci da cacciatore. Gli occhi mi battono, si abbassa il mio sguardo ma tornando davanti a me c'è quella fochetta morta qualche ora fa, Anna si chiamava? Che colpo di testa, quell'immagine nei miei occhietti domina, devo tornare al mio compito. Ma le sirene si avvicinano emergendo dai mari e bagliori mai visti in questo polo, risalgono i fianchi innevati della montagna, cercano l'entrata della caverna per sfondarla, possono darmi la caccia? Delle orche? Io sono sul picco della catena, non ho paura ma ne ho troppo delle loro seccature. Ruzzolerò via uscendo da questo buco sopraelevato, da dove l'aria gelida mi pervade come il tocco di una madre, non ho matrice diversa, scenderò da qui scenderò e mi mimetizzerò nel mio habitat. Giù nella piazza la distesa di neve è bianchissima, lo si vede qui dall'ultimo pendio, l'aria sempre più gelida, la luce nivea inglobante, è tutto così spoglio, glacialmente arso è... opprimente? (Ruggito di orso). (Rumori di sirena e battiti sulla porta). Non ho più pesce da perdere, questa distesa bianca, sul ciglio grigio che la precede, manca solo di me... scendo...
(Baam).
"Intermezzo".
Una voce esterna dall'alto del palazzo del suicidio si espone subito dopo:
"La sua macchia rossa scoppia come lo sgorgo delle cascate di sangue, l'immagine si è compiuta un'ultima volta".
(Intermezzo)
Arrivata la polizia di fronte al cadavere, accade un'evento straordinario il corpo del suicida si trasforma nella carcassa di un orso polare, scompaiono le vesti, restano le stampe di quelle immagini come cartoline dall'inferno.
Ispettore: Ma questo non è possibile, cosa è appena successo?!
Poliziotto: È assurdo, e questa immagine..? Sono le cascate di sangue, è un evento particolare ci svolge in Antartide, su un fianco a Sud‐est del continente congelato, acqua ipersalata ricca di ossido di ferro sfonda le pareti di alcune montagne. Sembra davvero sangue...
Ispettore: Ma gli orsi polari non vivono in Antartide...
Poliziotto: Lo so.