L’altopiano delle castagne

L’altopiano delle castagne

Nessuno sapeva esattamente dove cominciasse e dove finisse.
L’altopiano delle castagne era un luogo sospeso tra la terra e il cielo, tra la memoria e il futuro, tra il respiro dell’uomo e quello della natura. Non si trovava sulle carte, eppure esisteva: viveva nella coerenza silenziosa delle sue regole, nella sua calma costante, nella sua luce chiara e gentile.

La temperatura era sempre di ventuno gradi.
L’umidità, mai superiore al quarantacinque per cento.
Il vento, lieve, odorava di terra bagnata e di castagna arrostita, anche se lì nessuno arrostiva nulla. Tutto cresceva, tutto cadeva, tutto si rinnovava senza fretta.

Le abitazioni erano di argilla e paglia, costruite in modo che respirassero insieme al terreno. Il tetto era di cielo stellato, senza tegole né lucernari: la notte, chi abitava l’altopiano vedeva le costellazioni senza alzarsi dal giaciglio. Non servivano lampade: le stelle bastavano. E quando la luna non si mostrava, bastava chiudere gli occhi per vedere la luce che nasceva da dentro.

Gli abitanti si alzavano all’alba e riposavano al tramonto.
Nessuno contava i minuti, perché lì non esistevano orologi.
Il tempo era segnato dai passaggi naturali: il canto di un uccello, l’aprirsi di un fiore, l’arrossarsi di una foglia. Ogni giorno aveva il proprio ritmo, e nessuno aveva bisogno di affrettarlo.

Si mangiava una sola volta al giorno, una portata soltanto.
Era più che sufficiente. Non per restrizione, ma per armonia. I corpi si erano abituati alla misura, e le menti avevano imparato a non chiedere più di quanto fosse necessario.
Il cibo non si comprava, non si vendeva, non si accumulava. Si condiva con gratitudine.

Non vi erano commemorazioni, perché la memoria non aveva bisogno di date.
Non si recidevano fiori, perché nessuno desiderava possedere la bellezza: bastava guardarla.
Le uniche bevande erano tisane e infusi, preparati con erbe raccolte al mattino, quando la rugiada era ancora fresca e le foglie parlavano piano.

Nessuna attività si svolgeva di notte.
Il silenzio notturno era sacro.
Chi aveva bisogno di muoversi lo faceva a passi lenti, in ascolto. Non vi erano lampioni né sentieri illuminati: solo la via del cuore e quella della luna.

Cinque giorni si lavorava — con le mani, con la mente o con il respiro.
Due giorni si riposava — non per stanchezza, ma per riconoscenza.
Durante i giorni di riposo, l’altopiano taceva. Le persone si sedevano sotto gli alberi di castagno, ascoltavano il vento passare tra i rami e cercavano di capire ciò che ancora non era stato detto.

Non vi erano sport né gare, perché nessuno voleva vincere sull’altro.
Meditare era l’unico esercizio.
La competizione era sostituita dalla contemplazione: chi coltivava la terra lo faceva come chi coltiva un pensiero.

Gli animali vivevano liberi. Non vi erano allevamenti, né compagnia imposta.
L’uomo non era padrone, né ospite, ma parte dello stesso respiro.
Chi desiderava una presenza si limitava ad ascoltare il canto di una cicala o l’eco lontano di un gufo.

Nessuno portava tatuaggi, gioielli o trucco.
L’unica bellezza era quella che non aveva bisogno di essere mostrata.
Il vestiario era sobrio, quasi umile, eppure dignitoso come la corteccia di un albero.

Nessuno era geloso, perché nessuno possedeva.
Non c’erano prigioni, perché nessuno desiderava punire.
Non esisteva la moda, perché la moda richiede un confronto, e lì tutto era semplicemente se stesso.

Economia e produzione erano circolari, come i tronchi degli alberi.
Ogni cosa restituita alla terra tornava in altra forma.
Il concetto di “scarto” non era mai stato inventato.
Non si contavano ricavi e costi, ma solo entrate e uscite: ciò che entra, ciò che esce, ciò che resta.

Il linguaggio era gentile, sempre.
Non per regola, ma per indole.
Le parole volgari non erano proibite, semplicemente non esistevano più: non c’era più nulla da ferire.

L’altopiano non conosceva turismo, perché nessuno cercava altrove ciò che aveva già dentro.
Chi arrivava — e qualcuno arrivava, di tanto in tanto — restava in silenzio per giorni, fino a quando non imparava a respirare come respirava la terra.
Poi decideva: restare per sempre, o tornare nel mondo con un seme nel cuore.

Lì regnavano tre principi semplici, e da essi tutto discendeva:

Fa quello che può. Non fa quello che non può.
Nessuno era costretto oltre le proprie forze. La misura dell’impegno era la serenità.

La libertà esiste quando non è imposta.
La libertà non aveva guardiani, perché nessuno voleva sorvegliare.

Serenità e salute.
Non la salute come assenza di malattia, ma come equilibrio tra l’interno e l’esterno.

Nessuno ricordava chi avesse fondato l’altopiano delle castagne.
Alcuni dicevano fosse nato da una promessa fatta dagli alberi all’uomo, in un tempo remoto.
Altri sostenevano che fosse un sogno collettivo, manifestatosi in un momento di grande disperazione della Terra.

Ma qualunque fosse la verità, una cosa era certa:
lì, nell’altopiano delle castagne, l’eternità non era un premio, ma una condizione.
Il tempo scorreva in cerchio, non in linea.
Le castagne cadevano, germogliavano, e tornavano a diventare albero.
Gli uomini, anche loro, tornavano alla terra — non per morire, ma per rinascere in silenzio, come radici invisibili di un mondo che non voleva finire.

E così, mentre il resto del pianeta ancora correva verso la propria stanchezza,
l’altopiano continuava a respirare piano,
con la calma di chi ha scelto la semplicità come unica forma di saggezza.