La Montagna Emancipata
La Montagna Emancipata
Nell’alba di un tempo che non appartiene più alle cronache, ma al respiro segreto della memoria, una montagna si destò dal lungo torpore delle ere. Non era un monte qualunque: era la Montagna Emancipata, così chiamata da coloro che, passando per le sue valli, ne avvertivano la presenza viva, come se un’anima primordiale vi abitasse.
Era un massiccio che dominava le terre circostanti con sobria grandezza. Non cercava d’imporsi, ma di custodire. Le sue pendici, ornate di larici e abeti, s’innalzavano come cori di preghiera; i ruscelli scendevano da lei come pensieri limpidi; e ogni pietra, levigata dal tempo, pareva contenere un frammento di sapienza terrestre.
Ma non sempre era stata così libera.
Un tempo, la montagna era stata incatenata dall’arroganza dell’uomo. Le sue vette erano state trafitte da gallerie, le sue viscere svuotate per trarre ricchezza, i suoi fianchi solcati da strade e funivie, quasi che il silenzio dovesse essere sostituito dal rumore del motore e dal chiasso delle comitive distratte. Gli alberi, un tempo custodi del respiro, erano stati abbattuti per far posto a rifugi e impianti di risalita. Le sorgenti, che un tempo scaturivano come lacrime di gioia, erano state incanalate e vendute in bottiglia.
La montagna, allora, si era ammalata. Non di una malattia che gli uomini potessero curare con le loro scienze, ma di una malinconia profonda: quella di chi non è più libero d’essere ciò che è. Il vento, che un tempo vi danzava leggero, aveva smesso di cantare. I camosci si erano ritirati più in alto, là dove ancora l’uomo non giungeva. Persino le nuvole passavano distratte, come se avessero smarrito il sentiero del rispetto.
Un giorno, però, avvenne qualcosa che mutò il corso della sua storia.
Una giovane donna — figlia della pianura e dei suoi ritmi affannati — giunse ai piedi della montagna, stanca di città, cemento e clamore. Non cercava sport né svago, ma silenzio. Si chiamava Elèna, e il suo nome risuonava come un soffio d’alba.
Salì senza meta, seguendo i sentieri abbandonati che solo gli animali conoscevano ancora. Si fermava spesso, non per mancanza di fiato, ma per ascoltare: le foglie, l’acqua, il vento tra le rocce. E nel silenzio, la montagna le parlò. Non con parole, ma con una sensazione di libertà perduta.
Elèna comprese.
Decise allora di restare, di dedicare la sua vita alla rinascita del monte. Lasciò le abitudini di prima, imparò a coltivare ciò che cresceva spontaneo, a raccogliere solo ciò che bastava, a rispettare ogni creatura. E pian piano, la montagna rispose.
I fiori selvatici tornarono a spuntare lungo i pendii. Le sorgenti, purificate dal tempo e dall’amore, ripresero a sgorgare copiose. Gli animali, timidi all’inizio, cominciarono ad avvicinarsi di nuovo. La neve, che da anni cadeva scarsa, tornò a imbiancare le cime con un candore che pareva benedizione.
E così, passo dopo passo, la montagna divenne emancipata.
Non più soggetta al volere cieco dell’uomo, ma libera nella sua essenza. Chi veniva a visitarla doveva prima spogliarsi del superfluo: niente veicoli, niente rumori, niente consumo. Solo chi accettava di camminare con lentezza e rispetto poteva salire. La montagna accoglieva, ma non serviva; donava, ma non si concedeva.
Gli uomini che la raggiungevano imparavano a dismettere la superbia. Alcuni, scendendo, non erano più gli stessi. Avevano compreso che l’emancipazione non appartiene solo alle creature umane, ma anche alla Terra stessa: essa reclama il diritto di essere sé medesima, non proprietà ma compagna.
Elèna divenne, col tempo, custode e testimone. Non sacerdotessa, non padrona, ma voce tra le voci. Ogni giorno scriveva su un quaderno di corteccia frasi che il vento le dettava:
“Chi ascolta la montagna, ascolta la parte più antica di sé.”
“Ogni passo che rispetta la terra libera l’anima da un peso.”
“L’emancipazione non è ribellione, ma ritorno all’equilibrio.”
Anni dopo, quando Elèna non fu più tra i vivi, il suo nome rimase inciso su una pietra all’ingresso del sentiero. Ma la montagna non pianse. Sapeva che nulla di puro muore davvero.
Oggi, chi sale alla Montagna Emancipata non trova rifugi né segnaletiche, ma trova se stesso. Ogni vallone, ogni fruscio, ogni stormire d’ala diventa una lezione di libertà e misura.
E così, la montagna insegna ancora:
che la vera grandezza non è nel dominare, ma nel coesistere;
che la natura non si emancipa dall’uomo, ma con l’uomo, quando egli torna a essere parte del tutto;
che il silenzio non è assenza, ma pienezza di senso;
e che solo chi si libera dal desiderio di possesso può comprendere la parola più antica del mondo: rispetto.
Perché la montagna non chiede di essere conquistata.
Desidera soltanto essere compresa.