La Repubblica del Farro
La Repubblica del Farro era un piccolo lembo di terra, appena più di tredici chilometri quadrati, sospeso tra valli verdi e monti silenziosi. Non cercava grandezza, non cercava fama: cercava soltanto armonia. La sua superficie non si estendeva oltre ciò che la natura aveva concesso, e i suoi abitanti si tramandavano da generazioni un motto semplice ma inviolabile:
“Fa quello che può. Non fa quello che non può.”
Un principio che non era rassegnazione, bensì saggezza: la consapevolezza che l’essere umano, per quanto ingegnoso, non è al centro dell’universo e non deve piegarlo al proprio volere.
La gestione della Repubblica
I quindici custodi della Repubblica — Luno, Marto, Merco, Giovo, Venerdo, Sabo, Domo, Ateno, Diano, Minervo, Olimpo, Caio, Tizio e Sempronio — non erano governanti nel senso classico del termine. Erano guide, custodi della memoria e della giustizia, garanti del patto che legava la comunità alla sua terra. Non prendevano decisioni in nome del potere, ma in nome dell’equilibrio.
Ogni scelta passava attraverso la meditazione collettiva: non esistevano votazioni né scontri di opinioni, ma silenzi condivisi. Solo quando tutti trovavano pace nell’animo si procedeva. Così, i conflitti non nascevano quasi mai.
La capitale e i villaggi
La capitale si chiamava Larnava, ed era un borgo fatto di pietra chiara, con tetti di legno e piazze senza statue né monumenti, perché nulla doveva celebrare l’uomo più della natura stessa.
Attorno, le frazioni vivevano in equilibrio come pianeti attorno a un sole:
Casluna Alta e Casluna Bassa, dove il farro veniva coltivato sui terrazzamenti.
Vernava Antica e Vernava Nova, testimoni del passato e del futuro.
Tirel, Gherta e Zembio, custodi dei mulini e delle acque.
Valnira, Planera e Alberia, immerse nei boschi.
Osvald, Candelot e Mulin Veccio, dove si macinava e si trasformava il raccolto.
Per Diana, Viotto, Faravelli e Fovo, che custodivano i riti e le feste del raccolto.
Ognuna aveva la sua funzione, ma nessuna valeva più delle altre.
Montagne e meditazione
Le montagne — la Cresta Ombrosa, il Monte Vireon e la Rocca Dravon — erano considerate santuari naturali. Non luoghi di conquista, non mete per sportivi o scalatori, ma rifugi del silenzio.
Nella Repubblica non esistevano sport, né competizioni, né agonismo. La corsa non era per superare l’altro, ma per inseguire se stessi; il cammino non era una gara, ma un atto di presenza.
Gli abitanti meditavano spesso all’alba, quando la luce dorata lambiva le cime e il vento portava il profumo dei campi di farro.
Il rispetto della vita
Non c’erano animali domestici, non c’erano allevamenti, non c’erano pesci chiusi in vasche né cavalli da cavalcare. La Repubblica del Farro rifiutava ogni forma di dominio sull’altro essere vivente. Gli animali erano considerati fratelli liberi, e così venivano rispettati.
Il nutrimento proveniva dalla terra: farro, cereali, frutti, verdure. Si diceva che il chicco di farro custodisse la saggezza del sole e che, mangiandolo, l’uomo imparasse a vivere con misura.
Una società senza confronto, ma con confronto interiore
Chiunque giungesse da fuori restava spiazzato: non c’erano tornei, non c’erano mercati rumorosi né grida di venditori. Non c’erano premi, né classifiche.
Ma c’era una cosa che altrove mancava: la pace dello spirito.
La Repubblica del Farro non aveva bisogno di eccellere, perché aveva scelto di non competere. Non aveva bisogno di possedere, perché aveva scelto di condividere.
Lì, ogni persona era valutata non per quello che faceva più degli altri, ma per la sincerità con cui cercava il proprio equilibrio.
La lezione della Repubblica
Col tempo, i viaggiatori che vi giungevano capivano.
Capivano che l’assenza di competizione non significava immobilità, ma movimento interiore.
Capivano che il “no” agli animali sfruttati non era privazione, ma restituzione di libertà.
Capivano che “fare quello che si può e non quello che non si può” non era debolezza, ma coraggio.
E imparavano che esistevano comunità dove l’etica non era scritta in leggi severe, ma in gesti quotidiani: coltivare con rispetto, meditare con sincerità, accogliere con silenzio.
Così, la Repubblica del Farro rimaneva piccola e invisibile al mondo frenetico, ma dentro i suoi confini brillava una verità semplice:
che la felicità non nasce dal primeggiare, ma dal vivere in equilibrio con ciò che ci circonda.