La valle delle fragole

La valle delle fragole non appariva sulle carte geografiche. Nessun satellite l’aveva mai fotografata, nessun censimento l’aveva mai conteggiata. Eppure esisteva, sospesa tra il respiro della terra e quello del cielo, in uno spazio dove la misura non aveva più senso. Lì, tutto era in equilibrio, come se il tempo stesso avesse scelto di riposare.

La temperatura restava costante, ventuno gradi esatti. L’umidità era ferma al quarantacinque per cento, giusta per la vita, giusta per la quiete. L’aria profumava di terra bagnata e di fiori selvatici, e il vento, quando soffiava, parlava con la voce dei ricordi.

Gli abitanti — se così potevano essere chiamati — non avevano nomi, né contavano gli anni. Vivevano in abitazioni di argilla e paglia, con tetti di cielo stellato. Nessuna luce artificiale disturbava il buio: la notte era lasciata al suo silenzio naturale, alle lucciole e al canto discreto delle civette.

All’alba, quando il sole si sporgeva dalle colline di nebbia, tutti si alzavano. Nessuno comandava, nessuno ubbidiva. Ognuno conosceva ciò che andava fatto, e lo faceva secondo la propria capacità.
“Fa quello che può. Non fa quello che non può.”
Questo era il principio primo, scritto non su pietra ma nella coscienza di ciascuno.

Non esistevano scambi commerciali. Le mani si tendevano non per prendere, ma per offrire. Le fragole — piccole, rosse, dolcissime — erano condivise, non vendute. Si coltivavano senza fretta, in modo circolare, affinché ogni pianta restituisse al suolo ciò che aveva ricevuto. Tutto era parte di un ciclo: seme, frutto, compost, rinascita.

La valle non conosceva rumori meccanici. Solo il gorgoglio dell’acqua, il fruscio dell’erba, il canto degli insetti. Anche il linguaggio era ridotto all’essenziale: molti comunicavano per percezione, telepaticamente, o con il semplice sguardo. Le parole servivano solo quando l’anima non bastava.

Non vi erano orologi: il tempo si misurava col battito del cuore.
Non vi erano prigioni: nessuno era prigioniero di nulla, né di sé stesso.
Non vi erano medici né malati, perché la cura era diffusa, parte della quotidianità. La medicina era la conoscenza, la chirurgia era l’intuizione, la guarigione era la pace.

Il cibo era semplice: una sola portata, scelta con consapevolezza, nutrita dal sole e dall’acqua pura. Le tisane e gli infusi accompagnavano le ore di silenzio. Nessuna commemorazione turbava la memoria: il passato viveva nel presente, senza peso. Nessun fiore veniva reciso, perché anche un petalo staccato era una piccola ferita alla terra.

Nessuno correva, nessuno gareggiava. Gli sport erano sostituiti dalla meditazione: accarezzare la mente era l’unico allenamento necessario.
E in quell’assenza di competizione, ognuno cresceva.

Non c’erano animali domestici né allevamenti: le creature libere vivevano libere, senza padroni. La valle era casa di tutti, ma di nessuno in particolare.
Non esistevano moda, trucco, tatuaggi, piercing. Il corpo era considerato un tempio naturale, non un campo da decorare. La bellezza risiedeva nella semplicità, nella coerenza tra dentro e fuori.

La contabilità era fatta di entrate e uscite, ma non di costi e ricavi. Entrava ciò che la terra donava, usciva ciò che l’uomo restituiva.
Era una forma di economia circolare, ma anche di pensiero circolare: tutto tornava, tutto serviva, nulla si sprecava.

Le giornate di attività si alternavano a due giorni di riposo, nel sesto e nel settimo. Nessuno lo imponeva, ma tutti lo rispettavano: il ritmo era un accordo tacito, come quello tra il respiro e il battito del cuore.

Non c’erano feste, né fuochi d’artificio, né musica artificiale. Solo la musica della natura, composta da infinite variazioni di vento, acqua e luce.

Chi viveva nella valle non temeva la morte, perché la vita stessa era percepita come eternità. L’immortalità non era fisica, ma spirituale: un ciclo di ritorni e trasformazioni.

La fraternità era la legge, la fiducia la moneta, l’altruismo il capitale.
Eppure nessuno parlava di utopia, perché per loro era semplicemente realtà: la naturale conseguenza del vivere con coscienza.

Alla sera, quando il sole calava e il cielo si stendeva come una coperta di stelle, la valle si addormentava. Nessuna luce rompeva il buio, nessun rumore disturbava i sogni. Solo il profumo delle fragole maturava nell’aria, come un segno di gratitudine per un giorno vissuto in equilibrio.

E così, in un angolo dimenticato dal mondo, la valle delle fragole continuava a respirare, silenziosa e viva, custode di un segreto antico:
che la vera libertà non si impone,
che la serenità è la più alta forma di salute,
e che la Terra, quando amata, restituisce sempre più di quanto le si dona. 🌿🍓