Maledetto pallino

Cosa c'è di ridicolo in un tumore?
Niente!
Penserà la maggior parte della gente, anzi averlo è il fatto più terribile che possa capitare nella vita. Eppure affrontare una cosa tanto brutta sorridendogli è forse l'unica cosa che nessuno (lui compreso) si aspetta.
Una mammografia cambia la vita in una manciata di secondi. Prima sei la donna più normale del mondo, pronta a partire per una vacanza, affrontare un nuovo lavoro, percorrere chilometri e chilometri facendo nordik walking (bè forse sto esagerando non ero proprio pronta a fare chilometri e chilometri, forse solo un paio di chilometri) e poco dopo pensi a quali vestiti si intoneranno alla bara, sempre che tuo marito li trovi quei vestiti e non ti faccia indossare quegli orribili pantaloni che non metti da anni ma che non hai avuto l'accortezza di togliere dall'armadio.
Come può una macchina ridurre così una persona. Che poi tutte le volte che ci si appresta a quella tortura, un po’ ci pensiamo che potrebbero trovare qualcosa, ma è più un pensiero scaramantico, di quelli che si fanno per scacciare la sfiga.
Invece un giorno quel pensiero diventa realtà e ti accorgi che non ti senti così diversa (anche se pensi ai fiori del funerale), e pensi che eri anche preparata a questa eventualità ma soprattutto non ti senti malata. Magari il tumore è così piccolo che non si sente neppure, non hai nessun dolore o fastidio, sei esattamente la stessa persona che eri prima di entrare da quella porta, la porta che ti ha scaraventato nel mondo dei malati. Perché da questo momento tu sei ufficialmente malata, ma non una malata comune, una malata VDP cioè che se non si cura sarà very dead person, quindi ti devi abituare al fatto che ora tutti ti guarderanno come si guarda la gazzella di Thomson che scappa da un leone, con un misto di compassione per il destino che ti aspetta e un briciolo di speranza che il leone prenda una storta.
Non solo dovrai abituarti a questi sguardi ma dovrai consolare e rassicurare tutte le persone a cui lo dirai.
Apriamo una parentesi: a chi dirlo e come dirlo.
Non si può diffondere una notizia del genere con leggerezza, sono informazioni che vanno dosate.
Quindi a chi dirlo? Be’ prima di tutti al marito, così che abbia il tempo di metabolizzare che ora non potrà pensare solo a bilanci e cazzate ma dovrà anche cercare nel suo cervello tutte quelle nozioni che la tua presenza gli aveva fatto archiviare in una cartella (sperando sia senza password) tipo: dove sono i vestiti del bambino? Come funziona la lavatrice? A quanti corsi extrascolastici ho voluto fortemente iscrivere mio figlio e ora chi lo porterà visti gli orari impossibili in cui li tengono (tutti prima delle 20) potrei elencare un'infinità di cose che si riverseranno su di lui come una catastrofe, ma poi ti rendi conto mentre glielo dici che il suo sguardo è pieno di amore e ottimismo e tu ti sciogli, fino a quando non capisci che l'ottimismo è legato più che altro alla speranza di una tua pronta guarigione e ripresa del servizio di factotum a tempo pieno.
Ma tu lo ami e non ascolti questa cinica vocina che ti balla per la testa.
Io purtroppo o per fortuna non avevo più una famiglia a cui dover dare questo dolore e forse questo mi ha consolato, certe notizie distruggono la vita di genitori e fratelli, lo so per esperienza. Almeno i loro occhi saturi di sofferenza e impotenza non li ho dovuti affrontare.
I figli, i figli si dividono in due categorie: figli grandi e figli piccoli e quindi due approcci diversi.
Con i figli grandi va bene un po’ di verità, ma va edulcorata negli aspetti peggiori e quindi è tutto un dire e non dire e mostrarsi comunque sempre molto tranquilli e fiduciosi.
Con i figli piccoli è tutta un'altra storia, puoi inventarti la favola del pallino malvagio che un giorno a insaputa di tutti è entrato nel corpo della mamma e ora bisogna assolutamente toglierlo prima che decida di starci così bene da voler costruirsi una casa, poi una casa oggi una casa domani va a finire che voglia diventare re del corpo della mamma e che poi si prenda il cuore per farci una palestra e il cervello un labirinto. Nessun bambino vuole ovviamente che il corpo della propria mamma diventi un parco giochi per pallini alieni.
Il bello di avere bambini quando capita di incontrarti e scontrarti con un tumore è che con loro puoi dimenticare di averlo, loro non vogliono una mamma né malata né diversa, loro vogliono la mamma di sempre e ti danno la forza di esserlo, con loro non ti senti mai la gazzella di Thomson, nei loro occhi c'è sempre lo stesso sguardo, faranno i soliti capricci e non ti faranno sconti e così facendo ti faranno aderire alla terra anche quando senti che ti stai un po’ sollevando.
Poi ci sono le amiche! Con le amiche vere potrai anche cedere un pochino e mostrarti fragile, le amiche sono mani intrecciate e lacrime che si mescolano, però io consiglio di non abusare perché le amiche soffrono, soffrono perché hanno paura di perderti e quindi non lasciamo andare gli argini ma teniamoci a braccetto e sosteniamoci a vicenda.
Tutte le altre persone che conosciamo non necessariamente devono saperlo, forse la cosa migliore è circoscrivere le informazioni, sarà più facile continuare ad avere una vita normale se gli altri non ti vedono girare per la città accompagnata da una nera figura con la falce.
Come dirlo?
Ormai ci diciamo tutto con un messaggio, ma come si fa a scrivere una cosa del genere, tra l'altro non c'è nemmeno una faccina dedicata che ti possa aiutare.
Allora telefonicamente! Pronto ciao come stai? Tutto bene, ah sai mi hanno trovato un tumore...ma come si fa!!!!
Forse bisognerebbe prenderla un po' alla larga, usare un giro di parole tipo: ti ricordi quel bel film con Julia Roberts Amiche Nemiche? Ecco io sono Susan Sarandon...non neanche così non va bene.
Ma ti sembra che già una poveretta deve affrontare tutto un iter ospedaliero infinito si debba anche preoccupare di come dirlo alle persone.
Abbiamo troppe relazioni, andrò controcorrente ma questo è proprio il momento di tagliare i rami secchi e gli inutili gruppi e contatti sul cellulare.
Ho un tumore e voglio poterlo dire occhi negli occhi a chi mi sta vicino quotidianamente e condivide la mia vita, gli altri si arrangino.
Una volta entrati nella black list dei malati, non rimane che aspettare di essere operati per sradicare il perfido pallino. Inizia così un pellegrinaggio ospedaliero fatto di un mucchio di esami, facce e macchinari che ti sfilano davanti. C’è il prericovero, e via di prelievi, radiografie, tac, elettrocardiogrammi, infermieri che ti sdraiano su lettini e dottori che ti toccano finché arriva il fatidico giorno dell’intervento.
Quando entri in ospedale, essendo una mamma a tempo pieno, pensi che finalmente potrai stare qualche giorno senza fare niente, sdraiata in un letto pensando solo ad essere tagliuzzata. In verità le cose stanno un po’ diversamente intanto il letto non è il meraviglioso materasso memory all’aloe che hai a casa ma una lastra di marmo che ti risveglia ancestrali pensieri, ma la vera tortura è il cuscino dell’ospedale, il fantastico cuscino pro cervicalgia (nel senso che te la fa venire) non c’è modo di potersi appoggiare senza avere il torcicollo.
Che dire poi del cibo…prima dell’intervento e dopo si deve stare a digiuno, per forza chi avrebbe il coraggio di far ingurgitare ad una poverella che deve andare sotto i ferri quelle schifezze, dopo due giorni che non mangi, ovviamente quella “deliziosa” pastina e “fantastico” purè ti sembrano un cibo da chef, poi ti dimettono in modo che non si possa essere troppo consapevoli di ciò che ti stanno facendo ingollare.
La vita in ospedale è surreale, nessuno dorme mai veramente, la sensazione è quella di un mondo senza tempo, le luci sempre accese e gente che si muove in continuazione. Ti svegliano all’alba per provarti la febbre e poi svaniscono per due ore e tu ti chiedi se la temperatura corporea si azzera dopo le 6 del mattino. Tutti i giorni gli stessi rituali, infermieri nei corridoi con i loro carrelli, medici silenziosi come chi è passato di lì per sbaglio, donne delle pulizie che diventano facce famigliari e ti raccontano le loro storie. Il te pomeridiano, la camomilla serale.
Ma la vera forza del reparto di oncologia sono le pazienti. Si diventa amiche in cinque minuti, ognuna racconta i suoi dolori e dopo un giorno ti sembra di conoscerle da sempre. La solidarietà tra i malati di tumore è una cosa speciale, è un legame fatto di tanti nodi che intrecciano i cuori. Questa malattia ha in sé il miracolo di condividere con ogni donna, che si conosce, le proprie paure, emozioni e speranze. Siamo un branco di gazzelle forti e il leone è solo non potrà sbranarci tutte.
Oggi c’è l’intervento, prima cosa indossare quella magnifica camicia allacciata dietro che è definita anti sesso, ma ingiustamente, è solo la sua collocazione e uso che la rendono così antiestetica, ma se la immaginiamo a casa in un momento di passione credo che quella apertura posteriore potrebbe rivelarsi eroticamente interessante. Comunque indossata la divisa da sala operatoria si procede all’iniezione di preanestesia, tranquillizzerà per tutto il tortuoso tragitto dalla camera alla sala estirpazione pallino. Arrivati nel luogo deputato, ti trovi distesa su un lettino con tre/quattro persone che ti girano intorno, chi ti parla, chi ti infila un ago che più che un ago è un ferro per fare la maglia, insomma un delirio e tu ringrazi quella bella puntura di valium che ti evita di dare in escandescenza. Dopo si entra nel tempio sacro e lì finalmente dopo aver messo una mascherina (??!! Qualcosa di veramente pesante) dopo solo tre secondi parti per il tuo viaggio. L’anestesia è una cosa che spaventa molti, personalmente non mi fa paura, ti regala uno stato di benessere e perdita del sé davvero eccezionale…ci sono giorni che vorrei che mi facessero un po’ di anestesia e crollare di botto senza non dover pensare a nulla.
Passata una frazione di secondo ti svegli ed è tutto fatto! Ti parlano, tu rispondi, dici cose e senti cose che il giorno dopo avrai completamente rimosso… fantastica mascherina!!!
Il giorno dell’intervento è un giorno transitorio, ci sei ma non ci sei e in men che non si dica torni alla realtà e il tuo unico pensiero è fare la pipì. Quello di andare in bagno è uno degli argomenti cardine durante i momenti comunitari. Ognuno racconta le proprie difficoltà intestinali come fossero le news del telegiornale, tutti a contare i giorni e a mangiare mele cotte.
Dopo l’intervento ti rendi conto che in te qualcosa è cambiato, oltre ad avere un pezzo di corpo in meno. È cambiato il tuo stato mentale perché il pallino non c’è più e ti senti pronta a rientrare tra la gente sana, ma il tuo corpo è cambiato nel senso che ti fa male, prima eri malata e non avevi dolori, ora sei guarita e ti fa male ovunque…è strana questa cosa.
Non ti vedi perché sei fasciata quindi non percepisci visivamente il cambiamento però lo percepisci sensorialmente, sembra che ti abbiano incollato il braccio al fianco e qualsiasi movimento ti sembra difficoltoso come se mancasse la pelle che prima ti permetteva di aprire il braccio. Più passano i giorni e più questa sensazione diventa davvero reale. Quando ti fanno la prima medicazione ti rendi conto di avere solo dei tagli eppure il braccio è diverso non sembra anatomicamente possibile. Anche quando la ferita non fa più male e riprendi a fare le cose di sempre ti accorgi che la parte che è stata operata è cambiata, il braccio è cambiato, anche il tronco è cambiato e allora inizi a pensare che forse non sei ancora tornata fra la gente “normale”, sei in un purgatorio di donne con il braccio cambiato.
Finalmente vai a casa, la tua casa non ti è mai sembrata così bella, nonostante gomitoli di polvere sul pavimento, bagni da stazione centrale e montagne di roba da lavare. Però è bella, tranquilla, senza persone che vanno e vengono, con il tuo fantastico letto che ti avvolge in un abbraccio e il tuo cuscino che ti accarezza la cervicale infiammata. Perfino la pasta in bianco di tuo marito ti sembra un piatto stellato. A casa non ci sono luci sempre accese, ci sono i tuoi figli e le loro mille richieste che adesso ti inteneriscono (una settimana prima li avresti strozzati). Ora ti puoi rilassare, dormire e riposare fino… fino a quando riprese le forze dovrai iniziare a saltare da un ospedale all’altro per fare esami diagnostici neanche mai sentiti nominare o per farti medicare.
Perché in realtà non sei guarita, ti hanno solo tolto il pallino ma la strada è ancora lunga e faticosa.
Primo esame: scintigrafia ossea. Ti mettono un radio farmaco, aspetti due ore poi entri in una macchina che ti scannerizza. Quindi sei radioattiva, almeno per ventiquattro ore, niente contatti, nella tua mente pensi e dove va una radioattiva, non può tornare a casa dalla propria famiglia, come una reietta della società dovrà vagare in posti isolati dove non c’è nessuno (non è facile trovarli nel centro di una grande città). Potrei provare a spingermi verso casa, là ci sono molti parchi, ma come ci arrivo? A piedi impossibile troppo lontano e poi sei reduce di un intervento, in metro o in taxi contaminerò senz’altro qualcuno…che situazione apocalittica. Alla fine opto per la metro, mi terrò lontana dai bambini e poi finalmente a casa, mi chiudo in camera e attacco sulla porta PERICOLO RADIOATTIVITA’…ah! Una serata di pace e completo relax in solitudine!
Quando si va a fare le medicazioni è come andare ai ritrovi dei gruppi di sostegno, si incontrano le compagne di degenza, si confrontano gli esami fatti e si condividono le sensazioni e soprattutto le ansie per quel futuro medico ignoto. Tutti aspettano l’esame istologico, la cartina tornasole di come è andato l’intervento. L’istologico ci dirà tutto sul terribile pallino, tutto sul suo passato e qualcosa sul nostro futuro.
A volte ci possono essere degli intoppi sul cammino che stiamo facendo, per esempio un istologico inaspettato, una storia diversa da quella che ci eravamo raccontate e all’orizzonte un nuovo intervento, più invasivo. Per un attimo non riusciamo proprio a ridere, nemmeno a sorridere, si esce dalla stanza e i volti delle compagne sono estranei, si pensa solo che bisogna resistere, la favola del pallino deve avere un lieto fine, però ci sembra che il pallino abbia già posato le fondamenta della sua casa e siamo noi a crollare sotto quelle fondamenta. Ma poi basta un’amica, una fetta di torta, l’amore e la dolcezza racchiusi tra le due ci dà la forza di reagire e tornare a ridere. Maledetto pallino non mi avrai mai finché avrò un’amica, un amore, un figlio e la voglia di vivere.
Si parte, si ritorna in ospedale, questa volta con il cuore meno leggero e avrei voluto con un cuscino diverso. Si scava, si scaverà alla ricerca dei felloni, sperando siano pochi, più che altro per il mio povero braccio già molto provato. Tutto è pronto per questa nuova avventura si va ad iniziare!
Con questo nuovo intervento Bingo!!! Ho guadagnato la fantastica esperienza del drenaggio. L’avevo scampata la prima volta…ingenua invece era solo dietro l’angolo o meglio dentro l’ascella chi se lo aspettava!! Il drenaggio è come un cagnolino da portare in giro, un cagnolino che fa la pipì di continuo e il tuo obiettivo è che smetta di farla. Lo tratti bene, ci stai attenta, non lo calpesti e lo guardi sempre perché dalla sua pipì dipende il tuo ritorno a casa. La cosa spiacevole del drenaggio è la famosa “mungitura” che solo a pensarci fa venire da vomitare. Due/tre volte al giorno con una specie di rullo mungono i tubicini che dal tuo corpo arrivano al sacchettino graduato, oltre il fatto che durante questa operazione ci si sente come se qualcuno ci volesse staccare il braccio, si scatena l’ansia da misurazione, perché il maledetto sacchettino, che magari rimane vuoto tutto il giorno, regalandoci l’illusione di iniziare a preparare la valigia, dopo la mungitura scatena una cascata di liquido da sembrare l’apertura di una diga e insieme a questo liquido scivolano via anche le nostre speranze di tornare a casa.
Togliere i linfonodi fa sì che il braccio, che ci sembrava già menomato prima, ora ci risulti oltre che inutilizzabile anche estraneo a noi e al tempo stesso con noi. Molto strano!!! Estraneo perché privo di sensibilità tanto da percepirlo diverso da com’è, con noi perché talmente dolorante da non poterci non pensare. Quando si fa questo tipo di intervento ci si sente tranquilli fino a quando si ha il drenaggio e si pensa ma tutto sto liquido poi dove andrà a finire e così iniziano tutta una serie di trip mentali. Il braccio si gonfierà? Ma la domanda è: quanto sono grossi i linfonodi? Saranno serviti a qualcosa e ora senza come farò? Infatti ti spiegano che senza di loro il tuo braccio sarà più prezioso della Gioconda e quindi dovrà stare sotto una teca al riparo dal mondo. Altrimenti??Altrimenti immaginiamo l’apocalisse e applichiamola al nostro braccio…terrore puro quindi teca! Se il braccio è il sinistro e non siamo mancini (il mio caso) si ha qualche speranza di fare una vita abbastanza normale, se no si è davvero segnati dalla sfiga.
Una volta tornati a casa, senza drenaggio, il corpo deve fare tutto da solo e lo fa come meglio può. Considerando che hai una cicatrice di quindici centimetri che sembra stata cucita da Polifemo, questo ovviamente non per colpa dei medici, ma per la pelle che non è collaborativa e non sa fare il suo dovere nell’affrontare uno squarcio!!!
Nel braccio, l’assenza dei linfonodi, crea delle autostrade che lo percorrono da nord a sud e sul quale viaggiano veicoli con gomme di vetro, ovviamente non tonde, non so me sia possibile ma è così o per lo meno è quello che sembra, il braccio non può raddrizzarsi in modo indolore se non sotto l’effetto della famosa “mascherina”.
Cosa fare allora? In una fase in cui si è appena usciti da due interventi, con la soglia del dolore e della sopportazione totalmente azzerati, questa esperienza sensoriale atterrisce, sia perché apre nella mente scenari terribili, sia perché ad ogni tirata di braccio ci si ricorda cosa abbiamo e che niente è lasciato ancora alle spalle, la famosa “tutta in discesa” auspicata da tanti è lenta come una scala mobile rotta, con gradini altissimi che rischiano di farci cadere e quelle righe metalliche che confondono il terreno sotto i piedi. Esisterà una soluzione, a parte dover assumer un pusher di paracetamolo a domicilio.
In tutto questo delirio, non si finisce di entrare e uscire dagli ospedali, e ci aspetta la temuta visita con l’oncologo!
L’oncologo, guai se non ci fosse, ma chi sceglie volontariamente di fare questo lavoro? Entrare in un tunnel in cui la percentuale di infelicità è altissima e quella del successo piuttosto scarsa. Comunque andare dall’oncologo dopo l’intervento fa paura come andare a fare un esame di stato dopo la laurea. Chissà se leggendo le carte mi promuoverà o se mi boccerà e dovrò spararmi la chemioterapia. La chemio è la cosa che fa più paura di avere un tumore, più dell’intervento, più del tumore stesso che il più delle volte è asintomatico. La chemio aleggia come un nuvolone nero sopra il reparto di oncologia, lo percepisci da fuori e ne senti quasi l’odore da dentro. Quando l’oncologo guarda la cartella clinica, fa le domande, il tuo cervello, poco reattivo, pensa solo no chemio, no chemio. Poi inizia il discorso sulle cure, sembra proprio che voglia portare lì, poi improvvisamente il discorso vira e il nuvolone si dissolve…quando si ha la fortuna che si dissolva! Allora si iniziano a capire un po’ di più le parole che escono dalla bocca del dottore, il cervello reagisce e si torna persone normali e senzienti.
Niente chemio, radioterapia e cura ormonale! Bene la radio brucerà un po’, cambierà i tessuti, sembra tutto sopportabile, non ha mai pronunciato la parola dolore. La terapia ormonale mi manderà in menopausa, va bene tanto prima o poi ci dovevo andare. Insomma è andata bene, nella sfiga sono stata fortunata.
Radioterapia! Sarà come una TAC, io sto sdraiata e la macchina mi gira intorno. La teoria è perfetta la pratica un po’ meno. Primo passo centratura, faranno dei piccoli tatuaggi (non si può scegliere il soggetto!), delle foto e effettivamente una TAC. Peccato che duri mezz’ora e devi stare immobile con le braccia alzate. Le braccia alzate!!! Ma ci siamo dimenticati che una delle due è praticamente incollata ad un fianco? Non si alza nemmeno con una gru e fa un male cane! A parte che nessuno aveva accennato al fatto che mi sarei ritrovata con l’apparato scheletrico superiore andato e che avrei avuto una spalla che sembra quella di una novantenne che ha zappato tutta la vita. L’unica consolazione è che la seduta di radio dura pochissimo, 280 secondi, i 280 secondi più lunghi di ogni giorno, perché la radio la fai tutti i giorni. Un’ora di strada per arrivare, 280 secondi di braccio spezzato, un’altra ora per tornare a casa. Venti giorni di terapia! Non ho un ricordo fisico devastante dopotutto: tanta nausea, stanchezza e un po’ di arrossamento. Però ricordo un malessere psicologico, ogni giorno uscire da casa e andare in ospedale mi faceva sentire malata, non guarita, con la storia ancora da svoltare…però mi ha fatto dimagrire di parecchi chili e non è poco in vista della cura ormonale e del mio sovrappeso (ci si attacca a tutto per coltivare l’ottimismo).
L’ultimo tassello è la terapia ormonale: pastiglia, puntura, sembra facile! Improvvisamente vai in menopausa, i tuoi ormoni vanno in letargo e ti trasformi in una specie di caldaia mobile, ti partono delle vampate di calore che ti incendiano dallo stomaco alla testa, tramortita da questa sensazione e sudata come avessi finito zumba ti assale un gelo come se ti avessero puntato addosso la bocchetta del condizionatore. Il bello di queste sensazioni è che ti colpiscono un sacco di volte di giorno ma soprattutto di notte. Quindi mentre dormi ti senti incendiare e poi come appena uscita dalla piscina in mezzo alla neve ti dovresti riaddormentare. Facile!!!
Però poi pensi a chi meno fortunata di te non ha potuto fare la terapia ormonale, ma solo la chemio e non ce l’ha fatta comunque e capisci che tutto è sopportabile. Perché è così, tutto è sopportabile di quello che hai affrontato. Il tempo scorre e ogni giorno piccoli miglioramenti ti avvicinano alla donna che eri. E arrivi al punto di sentire che questa brutta avventura è passata e che tutto è tornato come prima. Tutto è come prima c’è solo una cosa che è cambiata per sempre.
Tu!
Tu non sarai mai più quella di prima, la malattia ti ha modificato irreversibilmente. È cambiato il tuo sguardo sul mondo. Non riesci più ad essere empatica con chi ha normali problemi, e li valuti tutti problemi risolvibili, trascurabili, di cui non si muore. Percepisci la tua vita in scadenza, tutte le vite lo sono ma ora la sensazione che hai è tangibile e ti sembra come quando c’è una bomba a tempo, non conosci i giorni che restano ma sei sempre in attesa del boato. Anche se sei attiva e la tua vita continua senza scossoni, ti senti sempre sul filo di una latente depressione che non permette ai tuoi occhi di vedere il bello che ti circonda. Passi dall’essere affamata di vita sognando di viaggiare e vedere il mondo, a volere l’esistenza di solitaria reclusione del conte di Montecristo. Il periodo buio è passato eppure senti di dover sempre accendere la luce per guardarti dentro.
Un tumore toglie molto.
Toglie per esempio il non sentirsi più una donna, un mammifero che con il suo odore attrae un maschio. Le cicatrici sul corpo, nella testa e nel cuore non impediscono di essere una buona mamma, una buona moglie ma impediscono di essere un mammifero la cosa più naturale ed istintiva. Il marito inizia con rispettare il desiderio di non saltarci addosso fino a smettere di desiderarci. Ci vuole bene come ad un’amica amata e fragile, non sente più il profumo di donna perché gli ormoni dormienti hanno smesso di produrlo. Ci prepara ogni sera la tisana ma non ci dà neanche un bacio. Si preoccupa che non abbiamo freddo ma non ci abbraccia mai. E più lui smette di cercarci più ci si rende conto che non si scherza nemmeno più su questa cosa, tutto diventa normale anche la distanza. Piccoli mattoncini trasparenti alzano un muro. Ci si vede, si parla ma non ci si può sfiorare. La malattia assorbe le energie di entrambi anche perché il percorso è ancora lungo e pieno di insidie. Vorremmo un uomo che non ci ricordi malata e lui vorrebbe una donna che emana ancora ferormoni.
In fondo poi non è così facile sorridere in faccia ad un tumore, però io non voglio smettere di sorridere alla vita, ai miei figli, a mio marito, alle mie amiche e poi accada quello che accada. Un passo dopo l’altro la vita ricomincia, ora dimentico le incomprensioni e vado da lui come una vera donna anche senza i miei ormoni.
Vuoi vedere che a furia di essere felice a nessun pallino verrà più voglia di essere maligno!