Come comincia: Nervoso per il caldo, il condizionatore c'è, ma spento.
Saranno le nove del mattino, la segretaria dello sportello, giunta da poco, non ha ancora il camice e non ha avuto il pensiero di accenderlo; il dubbio che mi rende irrequieto è se abbia dimenticato di farlo oppure se, sbattuta la borsa di Louis Vuitton falsa sul desk, abbia prolungato il suo caffè nel retro, indolente e cinica rispetto al fatto che nella sala d'attesa siamo già in dieci, lì seduti da mezz'ora. A squagliare. Senza aver potuto prendere il numero dall'apparecchio elettronico perchè è spento.
Impauriti, violentemente zitti, ormai omologati dai nomi delle medicine che quasi hanno sostituito i nostri o almeno quello di mio padre e degli altri pazienti. Ma quando si è in uno studio privato di un primario, pazienti o parenti del paziente, anche i sani diventano un pò pazienti: pazienti impazienti. Senza false morali, la malattia ce l'hai tu, ma io sfogo la mia sanità rubando un pò del tuo cancro: ci si sente diversi perchè in salute, in questi casi; tutto al contrario, qui siamo la minoranza. Un pò come quando sei in ospedale passando le ore al capostipite di un letto e cominci a vagare: vai in cappella, preghi, commenti, ti stendi sulla panca, o vai al bar, nei giardini, ti intrufoli nei reparti, osservi e parli con le infermiere carine o con quelle più materne che odorano di brodo, e giudichi lo stato di igiene dei pavimenti e dei bagni. Fai delle figure di merda elefantiache e leggi nelle colte bacheche di convegni sul morbo di Lowrence d'Arabia, o sulla sindrome dei globuli fucsia. E' la follia. Una sana follia che ti fa scoprire tutto un altro popolo, quello degli ospedali. E' come un viaggio in una terra in cui si parla una lingua a sè, quella del dolore e dell'ironia dovuta alla rassegnazione. Ciò che ho combinato negli ospedali lo sa solo Dio ed i malati di quel momento, sdraiati nei letti: come quando fecevo cantare un reparto intero ed ogni malato riproduceva il suono di uno strumento musicale. Mai come allora le flebo erano state utili.
Mio padre è un paziente paziente, almeno in apparenza, ed è di certo più educato di me. Ne guardo la camicia a quadretti, osservo la densità della sua sudorazione, poichè senza il condizionatore potrebbe cominciare a sudare, e non ho acqua con me, ma stranamente è asciutto. La camicia gli sta bene, celeste con quadretti blu, la pelle bianca, qualche pelo, bianco anche lui con la radice ancora nera. C'è un lungo momento della vita in cui bambini ed anziani si assomigliano: nelle esigenze, nei capricci, nel colore della pelle, la delicatezza della pelle, il colore bianco delle pance, la quantità di cibo, la scherzosità ed anche qualche chiaro istinto da rompicoglioni. Ma la camicia lo rende bello, la V del collo lascia immaginare che deve essere stato un bellissimo uomo. Io però sudo e perfino il mio caldo nervosismo sudato diviene schizofrenico, dato che accenno qualche sorriso guardando mio padre di nascosto,di sbieco, mentre lui non se ne accorge. O finge: sarà stato un bell'egocentrico negli anni '60..
Siamo il numero dieci, prima di noi nove persone, e ad un ritmo di visita regolare per mezzogiorno e mezzo potremmo uscire di lì. Il condizionatore si accende, il piccolo schermo elettronico della numerazione parte da 01, i caffè sono stati presi, le mani disinfettate, le pareti prendono vita, il colore pastello color giallo-cacca-pergamena diventa un colore serio e borghese, la stalla di pazienti e impazienti ravviva nella mente il ricordo di aver pagato molto per quella visita, moltissimo. Ci si sente pazienti impazienti importanti. Che squallore, nemmeno un attimo prima di morire i responsabili di quel verdetto ricreano per tutti la decenza di rendere tutti uguali. Ci sono morti di serie A e morti di serie B a questo mondo.
Si comincia.
Nell'istante preciso in cui appare 01 ed apro il mensile sulla salute che non ho mai letto nè leggerò mai al di fuori di quella stanza, ben nove persone si alzano contemporaneamente, chi con un sorriso, chi con rassegnazione. Io e mio padre alziamo la testa come due galline di fronte alla porta del pollaio che si apre facendo entrare la luce di un sole di campagna accecante: tutti i nove si dirigono verso la porta del "dottor Chiunque tu sia spero di vederti per l'ultima volta". La mente ha un potere eccezionale in certi casi, poichè in un attimo seleziona le immagini e fa la radiografia della situazione, come se fossimo un pò medici anche noi.
La vecchia è davanti. Tutti gli altri sono dietro, la seguono, hanno età diverse, ma..non posso credere ai miei occhi : si conoscono tutti. Qualcuno si somiglia, alcuni si tengono a debita distanza, alcuni parlano a volume alto, una ride con l'anziana signora, altri sono seriosi, altri ancora sono seri. Vanno tutti insieme nella stanza dello specialista.
Rimaniamo io e mio padre, soli nella stanza, come quelle due galline di prima: ci guardiamo inebetite. Se fosse sonoro questo racconto, qui ci starebbe il verso di due chiocce interdette e attonite. E potremmo con ogni probabilità cagare almeno un uovo a testa.
Ci sentiamo felici, sollevati, liberi dall'umanità, due A-polli della sanità locale, guariscono perfino le nostre sfighe. Per un attimo. Soprattutto quelle di mio padre, sempre per un attimo. Ma siamo italianissimi in questo e la curiosità tipica dell'italietta paesana comincia la sua scalata verso l'appagamento della brama di sapere: vogliamo capire cosa succede! Non c'è nessuno, se non quella segretaria truccata di primo mattino con troppo rossetto, in camice bianco finalmente, da cui pero' si intravede un bel seno meridionale. Mio padre mi fulmina con lo sguardo e mi impone di cioncare su quella sedia e di farmi un anfiteatro di "fatti" miei. Non c'è bisogno di parole quando un padre deve tirare il guinzaglio, ma io in realtà sempre lasciato libero di agire , mi alzo di scatto. Il mio intento è solo conoscere l'andamento della fila, poichè essendosi acceso tardi il conta-esseri umani elettronico, quando tutti noi eravamo già dentro, non so se mio padre sia da considerarsi numero dieci o numero due. E' per il suo bene che lo faccio! Ma mio padre queste uniche parole mi rivolge :- "Stai a sedere, sennò con me non vieni più". La morale contro la realtà dell'essere, il perbenismo saggio di chi ha 80 anni contro la voglia mortale di conoscenza terra terra. Un ricatto. So perfettamente che anche lui vorrebbe sapere, ma l'essere un paziente paziente si impone sulla comune ed umana impazienza. Non ho certo preso da lui, fortunatamente. Se ad 80 anni avrò il cancro, come è solito averlo qui a Taranto, sarò molto più sfacciato e divertente. Non c'è cosa peggiore dell'etica del paziente quando nessuna etica è stata seguita da parte di chi ha provocato il nostro ammalamento. Credo sia mio diritto vendicarmi su di loro e vivere appieno anche i miei difetti da gallina epica. Del resto non sto ammazzando nessuno. Io.
Tutto questo ricopre l'arco di tempo di soli cinque minuti. Padre e figlio alle prese con la morale in uno studio oncologico, d'estate: è Bio-etica anche questa, mica i soliti dilemmi, cose da matti ! Ma all'improvviso la stessa porta che prima era stata un'entrata diviene un' uscita: tutta la comitiva di amici, capitatanati dalla vecchiaccia forzuta,ma lenta nel suo incedere, saluta roboante la segretaria e gli assistenti del retrobottega. Del dottor "Chiunque tu sia basta che salvi mio padre " si sente una flebile voce plurilaureata nel dire cose, ma non se ne vede la forma. Sono quasi sul punto di salutare, anche io, poichè salutare è salutare, ma mio padre mi si aggancia sul collo come un avvoltoio dittatore, sapendo che saprei andare ben oltre il saluto, col carattere estroverso che mi ritrovo. La porta si richiude al passaggio dell'orda di colleghi pazienti.
Nuovamente rimaniamo soli. Il silenzio di mio padre è tipico di chi conosce il tempo delle visite: cosa vuol dire quando una visita dura così poco? E' un responso? Un pagamento? Il ritiro di un esame! Un regalo di natale tipico di quelli che si fanno agli specialisti, ma non è Natale, è il 7 agosto ! Che Santo è il 7 agosto? Sarà il suo onomastico. "Ma sciatvene a mare, scià... " ( trad dal pugliese: - "ma andate al mare, andate..." - con tono di scherno ). Va bene, è il nostro turno.
La segretaria ci invita ad entrare per essere accolti da suà maestà il primario specialista. L'incontro è breve ed essenziale, io posso entrare per accompagnare mio padre, ogni nuvola ed ogni pensiero bizzarro di argomenti cui troppo la nostra attenzione si rivolge, riempiendo la vita di tante inutilità, sparisce. Torniamo seri, silenti ed impauriti. Omologati al destino di tanta gente ed ai respiri di un U.F.O. di bianco vestito che è di fronte a noi, uno che fa la professione di medico, possiede la dottrina, lui è la scienza e di lui cerchiamo di non dover interpretare null'altro che ciò che egli dice; non vogliamo avere paura, vogliamo capire ma non capire troppo, non vogliamo ma vogliamo interromperlo, così ascoltiamo ed io per primo divento un pulcino educato che vorrebbe solo imparare il più possibile per non far parte di quel destino. "Tra un mese il prossimo trattamento".
Qui c'è l'aria condizionata per fortuna, anche il verdetto è un pò condizionato, più fresco direi, meno caldo sulla pelle scuoiata di mio padre, che si ritrova "dall'altra parte" e sulla sua pelle sente tutte quelle parole come ferri infuocati cui non c'è scampo, se non rendendo vivo ogni momento in cui ancora si è vivi. Quindi caro padre, sono felice se ogni tanto ci ritroviamo insieme come due galline, altre volte come A-polli fortunati se il condizionatore di una pessima sala d'aspetto , cosi incolore e ignava, così odorante di caffè di una segretaria col seno accogliente, si accende per noi. Almeno morirai ridendo per un figlio un pò matto. E' tutto colore che si sparge su pareti color merda.
Andando via ringrazio, so essere molto educato quando voglio.
Ma ...colpo di scena! Un padre, che era stato un bel matto da giovane, mio padre, Giancarlo, chiede a Vanessa, questo il nome della nostra Giunone al desk oncologico, chi fossero tutte quelle persone, come mai tutte insieme li dentro, come mai così spensierate. Forza papà, sei un grande! Fanculo la morale! Ecco da chi ho preso, il carattere del paziente viene fuori, l'impazienza di carattere avanza goliardica tra padre e figlio: siamo una bella famiglia tarantina! E provo fierezza nel vedere come un uomo saggio sappia accondiscendere ai suoi bisogni infantili, come indossare una bella camicia a quadrettini blu per farsi bello di fronte ad una bella segretaria. Ora mi spiego perchè ogni volta che si reca in quello studio mette le sue camice più belle.
Giunone, così amabile e materna verso il mio vecchio padre, ci informa che trattavasi degli otto figli della signora anziana, venuti per salutare il primario per l'ultima volta, poichè la signora dopo due mesi avrebbe fatto un viaggio lunghissimo, l'ultimo. Non c'era più tempo. Gli otto figli avevano accompagnato la loro vecchia mamma ed uscivano da quella porta, tutti insieme. Come una grande chioccia con i pulcini.
Mio padre ed io usciamo, sbottoniamo ancora di più le camicie, poichè all'uscita del portone la calura del 7 agosto ci accarezza i peli del petto che gridano pietà. Siamo belli insieme. Ridiamo. Non so perchè. Ma ridiamo.