Cinque Cento Trentuno

Quello che mi uccide:
salutarvi tutti, i giorni
interminabili nei mesi
più infinito, le sedie
addomesticate agli schienali,
spine dorsali di vimini temprate
alle intemperie, barche all'asciutto
rodate sul cocchio della piazza
per la prossima stagione.
Ed il picchetto ostinato dei
tigli, l'asfalto così oblungo:
perfino la cameriera che scodinzola
fra i tavoli ha indossato gli stessi
orecchini per tutta la mia vita.
Ed il cappotto ecrù del primo
cittadino a Natale, ed il fabbro
nel suo riconoscibile scamosciato,
daino nella frazione più isolata,
o  il panorama annacquato
dagli stupori dei soliti turisti.
Quello che mi uccide: la paura
che dentro la mia voce sia incassata
la bacchetta con cui fare l'incanto,
che il mio amore, venuto dal cardinale
opposto, abbia ragione. Lui è un
bocciolo nella scatola argento
delle pastiglie, un misurino di
buon sesso nella poltiglia dei divieti.
Il mio amore passerà alle nove,
se non sarò pronta, tirerà
altrove il suo cammino.
Il cammino è un cavallo, basta
pungolargli i fianchi per l'innesco
e lui si innesca.
Dovrei solo chiudere la valigia,
imbustarvi con la plastica e
l'indifferenziato. Un lancio e poi
parola d'ordine, il lasciapassare
con cui si vive: ho anche io del
sangue, giuro, da qualche parte accumulato.