Amcron

Amcron



Paul era convinto di essere sveglio.
Il sole era alto nel cielo e il vento da mare spazzava il nettare di piante selvatiche amalgamandole al sale di cui era pregno.
Paul inalò in fretta percependo una sensazione di sollievo come se un grosso peso si fosse improvvisamente dissolto.
A una ventina di passi, sorretto da rami, un telo in canapa indicava il ricovero della notte.
Ai bordi della radura in cui si trovava, alti e robusti tronchi si univano a rampicanti tracciando sentieri estranei.
Riassettò il panciotto e la camicia nel pantalone colore cachi.
Allisciò l’esile cravattino, portandolo al centro.
Ai piedi non aveva calze né scarpe.
Una voce di donna interruppe le cure.
Si voltò ad accoglierla.
Fu subito attratto dal viso tondo e da occhi luminosi che gli venivano incontro.
<Penseremo a lui! >, disse appena fu vicina.
Paul portò le mani nelle tasche e la ragazza, accompagnò con affetto la mano alla sua spalla a dare calore, forza.
Paul avvertì un senso di pace dal contatto.
Poi lei si fece al fianco incrociando l’avambraccio con il suo.
Un camice bianco e lungo, il suo vestito
Sbarazzina tirò da un lato i capelli dorati come il sole e lo condusse verso la tenda.
Paul assecondò, i modi della giovane lo incuriosivano.
Cercò più volte di sbirciare i tratti e vedere i suoi riflessi in quelli azzurri.
Alla ragazza venne da ridere:< Che cosa fai?>, disse.
Dovettero schivare una serie di oggetti indefiniti sul percorso, composti di valige smembrate e cocci.
<Rimetteremo a posto ciò che è buono!>, propose la donna chinandosi a raccogliere delle vesti.
Paul annuì.
Non aveva idea del posto e la memoria non lo aiutava.
Perfino i colori erano eccessivamente vividi perché fossero reali.
Se ne rendeva conto e importava, meno.
<Dov’è?>, domandò osservando l’interno deprimente del riparo.
< Lassù! > rispose lei prontamente; andando a individuare con la punta del dito la cima di un albero assai cresciuta.
Paul dovette guardare a lungo, fino a distinguere nel fogliame il volto tenero di un bambino dai capelli castani e fragili.
<Ecco dove si era cacciato!>, esclamò allora, contemplando la capacità del giovane a mimetizzarsi.
< Sai di chi e cosa è figlio, ma è un bambino buono!>.
Paul annuì nuovamente.
< Questo è latte! Bevine ti farà bene!>, propose la ragazza.
Ore dopo, calò la notte recando il freddo.
Chiusi all’interno del fragile riparo c’era Paul, la donna bionda che aveva incontrato al mattino e un bambino di pochi anni.
Paul ritenne di avere la febbre.
I brividi scuotevano le membra.
Avvertì una mano delicata tastare la fronte.
Poi l’oscurità e gli incubi presero il sopravvento anche sulla mente.
La luce si riaccese all’improvviso
Non era energica come il mattino ma fioca, da forza elettrica.
Paul si trovava tra pareti metalliche rivettate.
Oltre un oblò, il panorama cambiava velocemente.
Considerò di essere seduto a un bancone circolare.
In quella sala dai tavoli metallici, era solo.
Sotto i piedi, il pulsare sordo di un motore.
Ricche quantità d’acqua si riversavano dalla sopraccoperta disperdendosi nei livelli sottostanti.
Una penetrò nella sala inzuppando le scarpe.
Non vi badò più di tanto.
Era attratto da un delicato accendino in oro massiccio che recava in mano.
L’oggetto aveva un pendente al quale era fissata un’ovale anch’essa d’oro.
Strinse il palmo pensando fosse una cosa esclusiva, il genere di oggetto posseduto da una persona importante.
Individuò sull’ellittico un comando centrale che spinse e quanto accadde lo stupì.
Al tocco l’oggetto si trasformava in una croce uncinata.
Continuò a premere innumerevoli volte il bottone e a ogni occasione, la svastica si chiudeva o riapriva perfettamente e senza l’apparenza di farlo grazie a un marchingegno che indubbiamente doveva possedere.
Passò più volte le dita sopra di essa perfettamente smussata.
Ebbe l’impressione che un uomo passasse per il corridoio.
Lo rincorse.
Di certo era una figura alta e prestante più di lui.
Noto del sangue gocciare dalla camicia all’altezza della scapola sinistra.
Il rivolo lordava fino al fianco.
L’uomo sembrava non curarsene.
Urlò: < Mein Führer>, ma questi non si voltò.
La figura scomparve alla prima svolta del corridoio.
Fu allora che udì una musica che non ricordava.
Ottoni e tamburi incalzavano crescendo in sottofondo e di numero, e a essi si aggiungevano parole pronunciate in una lingua straniera, che comprendeva perfettamente.
Erano odi per una donna abbandonata a casa, unite alla sete di conquista di una razza che ritiene, essere assoluta.
Lo tradusse come canto di orrore e annuncio di morte…
Gettò l’accendino sul tavolo, affrettandosi alle mura e osservare l’oceano.
Era mosso e schiumoso come mai visto.
Flotte di fantasmi somiglianti a soldati sorgevano dalle acque sotto la nave, stipati in barconi di legno diretti verso terra.
Navigavano un’infinità scura quanto la notte.
Così, il Führer in fuga dava corso al progetto più soprannaturale e malato che avesse mai ordito, quello di rianimare le anime dei morti tramite una macchina costruita negli ultimi giorni della guerra e con cui sperare di cambiare la sorte.
Paul salì fino al comando per ordinare agli uomini di dare forza ai motori al bastimento capace di solcare il mare alla velocità degli aliscafi.
<Mio Dio, svegliati!> implorò la voce.
<Quanti erano i sosia?> disse pensando che era toccato a lui condurre in salvo quello vero.
< Pensiamo a suo figlio ora. E’ solo un bambino…>.
Le sequenze del bastimento che penetra nel porto a gran velocità e la gente che fugge dal molo per salvare la vita sono le ultime che lascia per domandare:
< Lizbeth, il congegno che fa rivivere i soldati dov’è?>.
<E’ distrutto e in fondo al mare. Nessuno potrà ricostruirlo…>:
<Dio sia lodato! >
Paul Hartmann morì al sorgere del sole.
Lizbeth crebbe il ragazzo.