Attila

(morto nel 453)

A quanti di voi è mai capitato di risfogliare i vecchi libri di testo dove, da adolescenti, abbiamo studiato per riportare un buon voto o per recuperarne uno brutto?
Be', non so voi, ma io, chiusa in una soffitta illuminata fiocamente da una lampadina che ha già fatto il suo tempo, tutta intenta nel risistemare e buttare cose inutili, mi ritrovo tra le mani i miei vecchi libri delle superiori, oserei dire quasi intonsi, visto che non amavo molto studiare.
Un sorriso mi spunta sulle labbra e con le dita sfioro il ricordo di remoti giorni di scuola, quando preferivo di gran lunga interagire con le mie amiche anziché con le pagine imbrattate di scritte e immagini che, all'epoca, poco mi dicevano.
Ed è mentre sfoglio questo libro impolverato, sottolineato a matita, che lo sguardo mi cade su quel viso appuntito, su quegli occhi sottili, su quei baffi spioventi e sussulto quando lo vedo mutare espressione e fissarmi in cagnesco.
Dopo il primo momento di sorpresa, sorrido divertita e lo ammonisco:
«Non mi fai paura, Flagello di Dio.»
Lui incrocia le braccia sul petto e grugnisce qualcosa di incomprensibile, prima di inspirare e dire:
«Sì, lo so. Ora non faccio più paura, ma ai miei tempi tutti tremavano al mio passaggio.»
«In effetti, si diceva che dove passava Attila non ricresceva più l'erba.»
«Sacrosanta verità.» commenta inorgoglito.
«Io non ne andrei così fiera.» ribatto.
La sua immagine tracagnotta, dove affiora la sua efferata spietatezza, sembra voler uscire a tutti i costi dalla prigionia del libro ed io posso solo immaginare il suo scalpitare furioso.
«Da dove vieni?» domando incuriosita.
«Ma da Aetzelburg, ovviamente, la nostra capitale.» risponde sorpreso, come se si aspettasse che lo sapessi.
«Che sarebbe?» domando.
«Uhm… Vicino all'odierna Budapest. Io e mio fratello siamo cresciuti lì, con nostro nonno che era il re, re Rua. Alla sua morte, io e Bleda siamo assurti al trono, insieme. Noi Unni facevamo così.»
«Una diarchia?»
«Sì, certo. Anche se,» borbotta con un pizzico di rabbia, «Bleda amava solo divertirsi con il suo ripugnante nano negro e non voleva interessarsi d'altro. Diceva che lo faceva ridere. Era il suo giocattolo, che un giorno ha avuto l'ardire di ribellarsi e quello stolto di Bleda ha mobilitato l'intero esercito per inseguirlo e riacciuffarlo.»
Provo a immaginare un popolo alla ricerca spasmodica di un nano e il solo pensiero mi fa ridere, prima di domandare:
«È per questo che la guida sei diventato tu?»
«Per forza di cose. Quello stolto di Bleda morì giovane e rimasi solo io. Io e il mio popolo.»
«Unni facinorosi.» commento.
Lui grugnisce indispettito e ribatte:
«Sì, Mongoli tozzi, dai capelli neri e dagli occhi a mandorla, mescolati a tedeschi alti, biondi e con gli occhi cerulei. Ciò che rimaneva di tutte le tribù barbare da me assoggettate.»
«Una bella accozzaglia.»
«Già, di guerrieri fieri e indomiti.» aggiunge con orgoglio, battendosi un pugno sul petto.
Con il dito lo sfioro e lui si irrigidisce, infastidito dalla sua posizione che gli impedisce di trattarmi da pari a pari ed io ne sono lieta. Non è da tutti avere il terribile re Attila nelle proprie mani e la cosa mi diverte alquanto.
«Si dice che la morte di Bleda debba essere imputata a te.»
Ghigna sotto i baffi e con quegli occhietti sottili e temibili mi fissa incutendomi un certo timore.
«Si dice.» ripete svenevole, lasciando volutamente la frase in sospeso.
«Sei stato tu?» insisto.
«Avrei potuto farlo benissimo. Ma avrei anche potuto non farlo.» aggiunge enigmatico.
Indispettita dalla sua reticenza, cambio argomento e domando:
«È vero che non ti sei mai lasciato abbindolare dal lusso di cui amavano circondarsi i romani?»
Alza con fierezza il mento, negli occhi un barlume di disprezzo e vuota superbia e risponde:
«A che pro? Per rammollirsi e divenire femminucce come lo erano diventati i generali romani?»
«Uno di loro ti ha battuto.» gli rammento con dolcezza.
Lui sogghigna e rimarca con altrettanta falsa dolcezza:
«Ezio era un barbaro, non un romano.»
«Touché.» rispondo alzando le mani.
«E, comunque,» riprende lui con indifferenza, «preferivo la mia bicocca alle case signorili e piene di agi di quei damerini romani. E preferivo mangiare la carne cruda anziché cotta. Hai mai provato ad assaggiare un pezzo di carne frollato tra la tua coscia e il corpo del cavallo?»
«Mio Dio no!» inorridisco.
Lui arriccia il naso divertito e alza l'indice, spiegando:
«Sono cose che temprano l'animo del guerriero.»
«Eppure i tuoi stessi uomini, a contatto con la civiltà romana, hanno preferito di gran lunga adottare i nostri usi anziché…»
«Femminucce!» sentenzia categorico, senza farmi finire di parlare.
Lo fisso in tralice, così fiero e sprezzante, i baffi sottili che scendono ai lati del mento e borbotto:
«Tutto ciò mi sa di tirchieria.»
Impallidisce, colpito nel vivo e ribatte secco:
«Il denaro all'epoca era importante e non amavo sprecarlo.»
«Ok, eri taccagno.» taglio corto.
[The_Huns_at_the_Battle_of_Chalons] Lo vedo digrignare i denti, ma non controbatte e ne approfitto per portare il libro un po’ più sotto la luce, per vederlo meglio.
«Che c'è?» commenta mordace. «Non hai mai visto un Unno in vita tua?»
«Francamente no. E ne sono anche contenta. Di tutti i barbari, eravate i peggiori.»
Scuote la testa e allarga le braccia, giustificandosi:
«Eravamo potenti. Per questo motivo Roma ci ha pagato tributi per anni: per tenerci lontani. E fintanto che i soldi giungevano con regolarità, non avevamo motivo di marciare contro la nostra gallina dalle uova d'oro.»
«Ma poi è successo.» rammento.
«Già.» risponde scurendosi in volto. «Alla morte di Galla Placidia e di Teodosio, il tributo che i due nuovi imperatori dovevano continuare a mandare è venuto meno. E da Costantinopoli giunsero ambasciatori a mani vuote. A mani vuote, capisci?» ripete indignato, come se l'affronto gli bruciasse ancora.
«Sì, certo, capisco che l'impero d'oriente aveva alzato la testa con l'avvento del nuovo imperatore.»
«Per gli dèi, è proprio così! È stato per questo che ho volto i miei occhi a quello d'occidente: era più malleabile. Sai,» aggiunge con aria complice, «Onoria, la figlia di Galla Placidia, aveva avuto la bella idea di mandarmi un anello d'oro come pegno di fidanzamento ed io non mi sono certo fatto pregare.»
«Ma tu avevi già altre mogli!» esclamo allibita.
«E allora? Non era la moglie romana che mi serviva, bensì il pretesto per giungere a Roma. Chi avrebbe osato fermare un ardente fidanzato che veniva a prendersi la bella fidanzatina per impalmarla?»
«Perché mai una principessa come Onoria ti si è offerta su un piatto d'argento?» indago.
Lui si accarezza un baffo e chiude un attimo gli occhi, come se con la mente vagasse a un tempo trascorso che non sarebbe più potuto tornare e suppongo sia nostalgia l'espressione che vedo dipinta sul suo volto duro.
«Onoria era una svampita, del tutto diversa da sua madre. Quasi certamente pensava di ricreare la bella avventura di sua madre con Ataulfo. Ma Ataulfo e Placidia erano due persone assennate e innamorate, che speravano di unificare i due regni, completamente l'antitesi di me e Onoria.»
Rimango un attimo a bocca aperta, quindi scuoto la testa e mormoro:
«E poi vi chiamano barbari.»
Lo vedo sogghignare di nuovo e annuire con lentezza. Quindi mi fa un cenno con la mano ed io mi avvicino per sentire meglio.
«Prova a immaginare il mio intero popolo, formato da Mongoli, Visigoti, Burgundi, Ostrogoti, Gepidi, Franchi, Turingi, Alani e tanti altri, prepararsi alla guerra. Un intero popolo, stile orda. Immagina le nostre donne guerriere, i nostri bambini, gli anziani, tutti in marcia per raggiungere e conquistare Roma.»
Provo a immaginare una simile apocalisse e un brivido mi fa rizzare i peli.
«Ma Ezio ti ha bloccato.»
«Sì, è vero, nei pressi di Mauriac, i cosiddetti Campi Catalaunici.»
«Tu Ezio lo conoscevi.» commento.
«Sicuro. Era stato ostaggio di mio nonno Rua e abbiamo giocato insieme. Da noi ha imparato tanto. Tanto da limitarsi a sconfiggermi, non ad annientarmi. E questo è stato un errore ben calcolato.»
«Ben calcolato?» ripeto attonita.
«Non hai idea, vero? Orbene, prova a immaginare il grande generale Ezio che sconfigge definitivamente i barbari: al suo rientro in patria si sarebbe trovato senza lavoro. Io gli servivo. Gli ero indispensabile per mantenere su Roma la spada di Damocle dei barbari da combattere.»
Annuisco e convengo con lui, pensando al medesimo comportamento, anni prima, di Flavio Stilicone contro Alarico. Ezio e Stilicone, i due generali romani che, scontratisi con i barbari, li hanno sconfitti ma non messi in rotta. Il tarlo del dubbio mi si insinua nella mente e fisso il volto di quell'Unno fiero e selvaggio.
«È per questo che sei sceso fino alle porte di Roma?»
«Errore. Non ci sono mai arrivato a Roma.» ricorda con amarezza. «Mi sono fermato a Milano e lì è giunta l'ambasceria dall'Urbe.»
«Già, niente po po di meno che il papa, Leone I Magno.»
Corruga la fronte e commenta:
«Magno? Quell'uomo l'avete appellato Magno?»
«Non avremmo dovuto?»
«E cosa avrebbe fatto per meritarsi simile titolo?»
«Ti ha fermato mostrandoti la croce.»
Scoppia a ridere di gusto ed io rimango perplessa, incredula dinanzi al suo comportamento a dir poco blasfemo.
«E solo per questo l'avete chiamato così?» balbetta continuando a ridere. «Io a Roma non ci sono voluto arrivare, perché si diceva che Alarico, una volta giunto nell'Urbe, sia morto. Non volevo fare la stessa fine. Per questo motivo, quando ho visto arrivare il papa, l'ho incontrato sulle sponde del Mincio.»
«Cosa vi siete detti?» domando curiosa.
Lui sorride e scuote la testa.
«Ero già malato, quel male che di lì a poco mi avrebbe condotto alla tomba e ho capito che il suolo italico era letale per la mia salute. È stato questo a farmi desistere, non la croce nella quale non ho mai creduto.»
Sgrano gli occhi incredula e mormoro:
«Quindi, tu sostieni che non fu papa Leone a convincerti a non violare Roma, bensì solo la tua superstizione.»
«Con l'aggiunta di un lauto tributo che mi sono guardato bene dal rifiutare.»
«Ma allora…»
«E allora se ne raccontavano di frottole.» ribatte scherzoso. «E tutti a crederci.»
«Ma tu, se non fossi stato malato, a Roma ci saresti venuto?»
«Chiaro. C'ero stato da giovane, come ostaggio e la sua bellezza mi è rimasta nel cuore. Sì, ci sarei tornato molto volentieri.»
«Ti è mancata l'occasione. Meno male.»
Lo vedo annuire e ghignare e mi fa un cenno con la mano, salutando:
«Se sei qui, lo devi solo a me, a nessun altro.»
Percepisco la frecciata indirizzata a papa Leone e provo a ribattere, quando mi rendo conto che l'immagine è tornata a essere piatta, fredda e rimango, a dispetto di tutto, a bocca aperta, muta testimone di un evento che, probabilmente, ha cambiato il corso della Storia.