Beatrice Cenci

(Roma, 12 febbraio 1577 ‐ Roma, 11 settembre 1599)

Avete mai imparato a sciare? Io ci ho provato quando ero ragazzina e la cosa mi ha talmente impressionato che ho preferito scendere con lo slittino per il resto della vita.
È un piacere enorme quando sfrecci sulla neve indurita, quando il gelo ti sferza le gote e il naso fino a renderli rossi come un ubriaco e senti l'adrenalina aumentare con l'aumento della velocità. Lo è un po' meno quando ti imbatti in un punto dove la neve è soffice e lo slittino ti si inchioda e tu sfrecci sopra di lui fino a ruzzolare giù come una palla impazzita. È un miracolo se non ti rompi nulla e rimani a sedere mezzo intontita prima di scoppiare a ridere per la scena buffa con la quale hai dato spettacolo.
«Beata te che puoi godere delle gioie della vita.»
Sbatto le palpebre al suono di quella voce sommessa e malinconica e mi alzo da terra, sgrullandomi la neve di dosso. La vedo, accanto a un albero dalle fronde basse, l'abito candido come la neve e rimango a fissarla a lungo, rapita dalla sua bellezza che non riesce a nascondere il dolore. Esito a lungo e chiamo titubante:
«Beatrice Cenci?»
Annuisce appena e sorride indicando la propria testa.
«Preferisco non muoverla troppo: dopo sarei costretta a raccoglierla. Durante tutti questi secoli,» commenta in un borbottio, «ancora non sono riuscita a capire come fare per riattaccarla.»
Rabbrividisco, a dispetto del caldo provocato dalle tante discese con lo slittino e porto istintivamente una mano alla gola, come a sincerarmi di avere ancora il collo.
«Vuoi vedere?» mi domanda e senza attendere risposta si prende la testa tra le mani e la stacca dal collo.
A quella vista raccapricciante divento più bianca della neve e un attimo dopo mi ritrovo di nuovo seduta per terra, gli occhi sgranati per l'orrore. Mi sembra di vivere un incubo scozzese, dove i fantasmi girano indisturbati nei meandri di castelli antichi e fatiscenti.
Tremando appena mi metto in ginocchio e porto le mani in avanti, a mo' di scudo e supplico:
«Ti prego, ricomponiti.»
Lei lo fa ed io rinsanguo visibilmente. Mi rialzo con lentezza, ancora sconvolta e mormoro:
«Comprendo il tuo stato d'animo e mi spiace per quello che hai passato.»
Sospira mesta e ricordo con chiarezza la brutalità e la crudeltà di suo padre, Francesco Cenci, nobile romano gottoso e rognoso, erede di una ingente fortuna che lui, con il suo stile di vita, aveva sperperato.
«Già.» mormora, come se mi avesse letto nella mente. «Soldi ereditati da suo padre e che è stato costretto a versare come risarcimento alle famiglie dei giovani da lui sodomizzati.»
Faccio una smorfia, pensando che gli uomini non cambieranno mai e domando:
«È per questo che non voleva farti maritare? Per non dover pagare la dote?»
«Esattamente. I miei stessi fratelli hanno provato più volte a parlare con il pontefice per spiegargli l'impossibilità di vivere accanto a un mostro simile, ma il papa, benché conoscesse la situazione, non ha potuto far nulla, se non esiliare i miei fratelli maggiori.»
«Pertanto, tu e gli altri siete rimasti alla sua mercé.»
China appena la bellissima testa e i lunghi capelli castani le incorniciano il volto dalle guance ancora paffute.
«Io e la mia matrigna, Lucrezia, siamo state rinchiuse nella rocca di Petrella Liri, in Abruzzo, in modo tale che lui potesse continuare a trattarci con estrema violenza lontano dagli occhi di Roma. I suoi continui soprusi, le sue svariate sevizie, alla fine mi hanno costretto a chiedere aiuto. Ho scritto alcune lettere al papa, Clemente VIII Aldobrandini, per spiegargli in quale situazione ci trovavamo io e Lucrezia e ho scritto lettere anche ai miei fratelli maggiori in esilio, nella speranza che qualcuno venisse a liberarci.»
«Ci sei riuscita?»
«Sì, le lettere sono giunte a destinazione, tuttavia nessuno si è preso la briga di aiutarci. Le mie erano parole al vento. Auspico che oggi si dia più credito a una fanciulla che versi nello stato pietoso in cui ho vissuto io.»
«Per certo, oggi le tue lettere non sarebbero cadute nel vuoto.»
Sorride soddisfatta e gira lo sguardo all'albero carico di neve che svetta alle sue spalle, commentando lapidaria:
«Allora, la mia morte è servita a qualcosa.»
«Indubbiamente. Le donne romane hanno guardato a te come a una vittima e come tale ti hanno onorata nei secoli.»
«È già qualcosa.» risponde con un cenno impercettibile della testa, gli occhi dolci velati di lacrime.
Mi soffermo sul suo turbamento e non riesco a dirle che, in fondo, era una colpevole che, oggi, avrebbe potuto usufruire delle attenuanti.
«Una di quelle lettere,» riprende a raccontare, «giunse nelle mani di mio padre ed io venni brutalmente percossa. Ero certa che sarei morta sotto i suoi colpi, invece ne uscii con un po' di ossa rotte e molte ecchimosi.»
«Tuo padre non andava per il sottile.» commento acida.
«No. Era un mostro, nel vero senso della parola. E quando, nel 1597, si trasferì in pianta stabile a Petrella, per me e Lucrezia fu la fine.»
«È stato allora che hai iniziato a pensare all'omicidio?»
A quella parola gli occhi le si illuminano e sembrano prendere fuoco come tizzoni ardenti, mostrando tutta la voglia di vivere che aveva.
«Già.» sussurra in un sogghigno. «Solo la sua dipartita ci avrebbe liberato dalla sua violenza. Non credi?»
Rimango un attimo in silenzio, ripensando a tutti i processi subiti da Francesco per la sua crudeltà e tutte le volte condannato, e mi domando se, in questo caso, la vittima non sia giustificata. Ma non sono un leguleio, non capisco nulla di leggi e mi astengo dal rispondere.
«Si dice che tuo padre avesse abusato di te sessualmente.»
«No, non giunse a tanto, per mia fortuna.» risponde nauseata.
«Hai organizzato tu il parricidio?» domando.
«Io, con la connivenza di Lucrezia e dei miei fratelli Giacomo e Bernardo, con il castellano Olimpio Calvetti e il maniscalco Marzio da Fioran.»
«E come avete agito?»
«Be'…»
Esita e si morde le labbra, mentre le guance le si imporporano, rendendola ancora più bella.
«A dire il vero, i primi due tentativi fallirono.»
[300px‐Hosmer_Beatrice_Cenci] «Due tentativi?» ripeto incredula.
«Eravamo un po' maldestri, devo ammetterlo. Noi non eravamo avvezzi a far del male. La prima volta provammo con il veleno e la seconda con un'imboscata, e sono giunta alla conclusione che questi due tentativi andati a male fossero un avvertimento divino, un tentativo di dissuadermi dal portare a compimento l'opera.»
«Ciò nonostante non gli hai dato ascolto.» faccio notare con un vago gesto della mano.
«No, infatti. Ma il terzo riuscì. Mio fratello Giacomo mi procurò l'oppio per stordirlo e dopo che si fu addormentato, Marzio gli spezzò le gambe con un martello, mentre Olimpio lo finì conficcandogli un chiodo alla base del cranio e uno nel collo.»
Inorridisco alla raccapricciante scena che mi rimanda la mente e scuoto la testa, inalando a pieni polmoni il freddo dell'inverno.
«Quindi tentammo di simulare un incidente,» continua, «facendo credere che fosse caduto dalla balaustra. Quando, due giorni dopo, il corpo fu rinvenuto, seguì il funerale e la sepoltura e noi tornammo finalmente a Roma.»
Il suo racconto freddo e distaccato gareggia con il clima rigido, eppure non me la sento di accusarla; in finale, si è solo difesa con le proprie mani, visto che nessuno accorreva alle sue invocazioni di aiuto.
«Ma poi si iniziò a sospettare di omicidio.» ricordo.
La vedo chiudere gli occhi e inspirare a fondo, prima di ammettere:
«Sì. Il suo cadavere fu esumato e risultò chiaro che non si trattava di incidente. E poiché tutta la famiglia lo odiava, i sospetti caddero subito su noi.»
«Foste imprigionati.»
«Sì, tutti quanti. Olimpio ammise le sue colpe e poco dopo lo uccisero. E lo stesso Marzio, torturato a morte, confessò prima di morire. Anche i miei fratelli confessarono. Solo io, all'inizio, mi dissi estranea ai fatti, ma dopo la tortura della corda, dovetti ammettere la mia colpa.»
«Confessione spontanea, vero?» commento sarcastica.
«Il papa decise di dover dare il buon esempio per cercare di arginare la violenza che dilagava nell'Urbe.» risponde con disprezzo. «Che ci vuoi fare? A quei tempi la tortura era tollerata, anzi, la si esigeva. Solo ai nobili era risparmiata, anche se per noi il papa fece un'eccezione.» aggiunge caustica.
«Ci fu un processo che coinvolse e fomentò tutta Roma.»
«Certo, ma ormai Clemente VIII aveva deciso che io dovevo essere il monito per tutti coloro che osavano ribellarsi.»
«So che al patibolo siete andati in tre: tu, Lucrezia e Giacomo.»
«Sì. Bernardo, che era giovane, fu risparmiato. A noi ci portarono nella piazza di Castel S. Angelo, in modo che tutta Roma potesse godere dello spettacolo. Ci furono tagliate le teste con una spada: prima Lucrezia, poi io. Mio fratello subì anche una tortura atroce durante il tragitto e sul palco venne squartato.»
Deglutisco e sento che conclude sconsolata:
«Tra la folla c'era pure Caravaggio.»
Rimango attonita e perplessa e guardo quel volto giovane e bello che emana una dolcezza infinita e mi domando come si sia potuto infierire su una simile creatura che aveva solo voglia di vivere e che gli eventi glielo avevano negato. È morta due volte e di questo tutta Roma dovrebbe rammaricarsi.
«Anche tu sei pronta a condannarmi?» s'informa studiandomi.
Scuoto la testa e rispondo con fermezza:
«No, assolutamente. C'è tanta gente al mondo che ha fatto cose peggiori di te e che vive liberamente.»
«Io so solo ciò che ho fatto io e non mi pento. Tanto,» conclude con tono amaro, «se non mi avesse ucciso la mano del boia, mi avrebbe uccisa mio padre. Per me, il finale non sarebbe cambiato.»
«Roma ti ha visto morire con dignità.»
Alza il mento con fierezza e mi fissa a lungo, prima di mormorare:
«Anche una giovane come me poteva mostrare come si muore. Avevo ventidue anni e per me abbandonare questa valle di lacrime ha solo significato iniziare a vivere.»
Esito dinanzi a questo commento, ma poi comprendo e sorrido annuendo.
La vedo farmi un inchino di complicità e le rispondo goffamente, scatenando la sua ilarità. Rimango incantata dinanzi alla sua gioia e rido anch'io con lei, fino a quando la mia attenzione è catturata da uno scoiattolo che si affaccia da un ramo imbiancato dalla neve. Lo guardo per un attimo, quindi torno a posare gli occhi su di lei, ma non la distinguo più e la neve candida torna a predominare, purificatrice e silenziosa testimone.