Bianca che porta via

Ho iniziato con qualche disegno ad acquerello e poi, di punto in bianco, ho iniziato ad accettare di stare su traghetti come questo.
Il mio compito è stare seduta a prua, con un foglio e dei pennelli, a dipingere ciò che mi passa per la testa.
Le feste di lusso.
Volteggiano gonne scintillanti, ballerine di mezza età con qualcosa di rifatto da mostrare, che fanno a gara a chi assomiglia di più ad una mucca al pascolo, con quei diademi giganti appesi al collo.
Sembrano falene che sbattono contro la luce, e la luce che le stordisce sono loro stesse.
Fanno rumore, sbattendo, un sacco di rumore, ed i profumi si fondono.
Sono circondata dal mare, ma la salsedine, per la prima volta, ha un odore di marca.
Water by Chanel.
Acqua di bagnoasciuga, by Gucci.
Racchettoni, by Valentino.
Stando qui, sembra che ogni singolo elemento dell'ecosistema sia stato creato dallo scontro di due abiti in seta cruda, dall'incontro teutonico tra tecniche di filler.
La tizia che mi ha invitato è una contessa, si è appena fatta la tinta rosso acceso per somigliare ad un fuoco segnalatore e si sta sbracciando vicino a me, davanti ad un ricco signorotto con un paio di occhiali che valgono più della mia casa.
Disegnando un arco in aria con la mano destra, gli dice ‐Questa pittrice è bravissima! Rinomata, passionale! Bravissima! Guardi dottore, guardi!‐
E per l'ennesima volta mi trovo un fiato sul collo che guarda il mio disegno da troppo vicino.
Questa gente, per far vedere che se ne intende, si appiccica.
Mi dice ‐ Signora cara, signora cara, perché non usa un cavalletto?
Ho la tela appoggiata alle ginocchia e i segni del pennello vengono terribilmente condizionati dai movimenti delle onde, dalla quantità dei cocktail serviti.
Non rispondo.
E lui dice ‐Ma complimenti signora cara, questi dipinti sono carichi di empatia. Mi ricordano il crepuscolarismo, l'ambientismo, un po' l'astrattismo con vaghe virgole di strutturalismo. Complimenti, complimenti!
Sto solo disegnando un mazzo di fiori su un tavolo.
Questa gente non la devi turbare.
Non devi proporre loro il dipinto di un corvo che mangia un occhio. Buon dio, non vorrei mai che si rovini il mascara in un'espressione di spavento.
Devi dar loro ciò che conoscono già, ciò che si aspettano. Qualcosa per la quale abbiano pronta la loro lista di parole che finiscono in ‐ismo da sfoggiare.
Dico Grazie, ci metto l'anima nei miei dipinti.
Non è vero.
La realtà è che non provo niente per questi fiori.
Non provo niente per la frutta secca che ho fatto l'altra settimana sullo yacht della baronessa Adalgisa.
Non provo niente per le bottiglie di vetro fatte all'inaugurazione del nuovo castello del principino sua maestà.
Lo faccio perché lo so fare, mi viene relativamente semplice e mi permette di entrare in ambienti come questi, queste barche, dove viene inscenata la genesi.
Vorrei non finissero mai di brindare, vorrei che le scorte di tartine al caviale non finissero mai, vorrei che i loro successi da raccontare non finissero mai.
E poiché non vedo nemmeno una reale emozione in tutto questo sfoggiare, vuoi perché davvero non c'è, vuoi un po' perché altrimenti si scucirebbe il lifting, mi ci sento a mio agio.
Disegnare un pavone coloratissimo o uno scarabocchio fatto mentre parlo al telefono, per me fa lo stesso effetto.
Se io venissi baciata e coperta d'oro dal re di Spagna, mi renderebbe indifferente e leggermente triste come essere trapanata con l'inganno da un sudicio nel bagno di un locale.
Ho sempre, comunque, la testa altrove.
Ogni volta che qualche nobile mi manda un invito ad esibirmi ad una festa privata, penso a come la testa ce l'avessi altrove anche quando stavo con lei, Grevebianca.
E a come, se accetterò l'invito anche stavolta, se perderò tempo a scegliere un abito, sarà ancora colpa sua.
Con Grevebianca ci sono stata, non ci sono stata mai.
Lei si alzava la mattina e accendeva delle candele abbinandole al colore della luce del cielo.
Metteva altalene sui rami degli alberi per divertire gli uccelli selvatici, imparava i canti dei rapaci e cercava di parlare con loro.
Quello che aspettava è che io me ne accorgessi.
Grevebianca sapeva che non ci avrei mai dato lo stesso suo peso, che stavo sempre pensando ad altro, e quando le candele si consumavano del tutto, lei raccoglieva la cera rimasta e ne creava un'altra, trovando stoppini ovunque. Sperando che stavolta ci avrei badato.
Grevebianca era il mio contrario.
La sua passione per me era talmente tanta da tradire suo marito.
Da uscire di nascosto dalla sua casa per venire da me, tutta trafelata, piena di aspettative.
Da me che oggi, mentre i camerieri passano con il terzo antipasto, non ricordo se avesse lentiggini o meno.
Non finisco mai i disegni quando sono finiti. Do sempre altre pennellate, che nulla tolgono e nulla danno, ma che tanto piacciono ai commensali. Evidentemente, quella che per me è una perdita di tempo, per loro è trasporto in più.
Per contratto, devo finire il dipinto quando viene servito il dolce. È specificatamente richiesto che tutta questa mia incontrollabile passione d'artista finisca con il profiterol.
Non che non me ne accorgessi di essere apatica. Iniziai addirittura un personale studio per capire cosa mi mancasse.
Tutte le sere andavo a teatro, mi sbattevo in faccia i melodrammi, ma non facevano altro che passarmi attraverso.
Lessi mille libri, guardai mille film, apprezzavo tantissimo il modo in cui i protagonisti vivevano di vampe, ma non riuscivo a trovare un briciolo di somiglianza con me.
Dopo poche ore non riuscivo nemmeno a descrivere ciò che avevo visto. Nemmeno mi ricordavo più il titolo.
Il mondo dell'arte aveva in me la durata di un “Dovremmo assolutamente rivederci” sulle bocche lucide di queste supermodelle attempate, nonostante facciano ondeggiare i capelli a ritmo del vento per essere più credibili.
So che, quando hanno bisogno di un'acconciatura da evento, il loro parrucchiere diventa esperto di correnti, e in base a cosa soffierà all'ora del brindisi, momento culmine della serata, scelgono la lacca più adatta.
Ed io avrei voluto qualcuno di parimenti esperto per far sì che, quando Grevebianca mi diceva frasi tipo ‐Cosa mi dici se ti propongo di andare a scivolare sul pendìo di una collina?‐, avessi a disposizione un fissante che mantenesse le parole in ordine, che non le arruffasse. Ferme per sempre.
Una volta su dieci andavo con lei e stavo a guardarla, tentando di capire quale delle sue azioni, delle sue frasi, del suo delinearmi con le dita i contorni delle macchie di erba sul suo vestito, avrebbe dovuto suscitarmi felicità, un qualche tipo di gioia. Sezionavo i momenti in così tanti pezzetti da renderli polvere.
Prima della fine di questa performance, almeno uno di questi collier verrà da me a chiedermi se posso andare a dipingere a casa loro, privatamente, durante un appuntamento con qualche imprenditore.
Finiti tutti i film d'amore, finite le canzoni, finiti i sussidiari, finita Grevebianca, ora accetto queste proposte per studiare altri tipi di emozioni.
Mentre le gambe inguainate nei collant si arrampicano su pantaloni di tweed, spesso citando il ritornello del tormentone del momento come fosse Shakespeare, io figuro l'espressione sorridente ed imbarazzata che avrebbe avuto Grevebianca vedendoli.
Accetto per farla ridere. Che poi chissà se sorrideva così davvero.

Un giorno mi aveva chiamato, mi aveva detto che suo marito era partito per affari, che nonostante il brutto tempo sarebbe venuta da me.
Io le dissi va bene, vieni, ma lei non arrivava.
Quello che non sapevo è che qualche ora dopo avrei avuto la mia prima vera passione.
Era una cosa che faceva, a volte, attardarsi per strada per calcolare il ritmo dei canti degli uccelli, la geometria dei fiori, così uscii di casa per vedere dov'era.
Un capannello di gente fu la sua prima bara.
I suoi braccialetti da morte di Faraona, due mani che la tiravano fuori dal fiume dov'era annegata.
Un'alga le se era impigliata al collo, creando un monile che le nobildonne si sognano.
Guardandola così, mi chiesi perchè, con tutte le cose che mi diceva, mi aveva nascosto proprio il fatto di essere un'imperatrice.
L'uomo che le faceva da braccialetti mi chiese se la conoscevo.
Non è stato per cattiveria, è che ho dovuto velocemente calcolare tutti i pro e contro di una mia risposta, se ho risposto di No.
Chiamarono l'ambulanza, la polizia. Arrivarono tutti e si misero tra lei e me, che me ne stavo impalata a farmi allontanare dai mezzi che mano a mano parcheggiavano lì, inspessendo il muro divisorio, inspessendo la tela.
Rimanemmo isolati dalla scena in due. Io e il fiume. Io e l'assassino. Entrambi in una tonalità sporca di verde.
Era facile confonderci, era facile dire che eravamo stati complici.
Che non ero io, che non era lui.
Che io ero stata i cento colpi e lui quello finale, che ha spaccato la pietra.
Oltre le carrozzerie dell'ambulanza, oltre le portiere che si aprivano e si chiudevano, oltre le sfavillanti sirene delle macchine della polizia, c'era chi stava dando a Grevebianca le attenzioni che io mai.
Conoscevo bene il punto dell'argine dal quale si poteva raggiungere l'acqua e risalire senza farsi del male, e mi riuscì facile farlo anche con due barattoli di vetro in mano, prima vuoti poi pieni.
Non è stato necessario avere i colori, poi.
Il primo disegno l'ho fatto con l'acqua sporca di detriti.
L'ho raccolta così in fretta che il rosso del suo rossetto non era ancora stato diluito.
L'ho raccolta così in fretta che il blu dello smalto ancora si vedeva, se mi concentravo.
Passai davanti alla tela tutto il resto della giornata, a disegnare lei seduta davanti a me, come stava di solito. A passare e ripassare le stesse pennellate perchè si vedesse qualcosa, con sempre maggiore foga, fino a bucare la carta. Solo allora ho smesso.
Nonostante ci avessi messo tutto l'impegno, nonostante avessi delle chiare linee in testa, quello che mi sono trovato davanti alla fine è stato un foglio bianco, sporco e bucato.
Forse è questo che provava lei ogni volta che provava a scuotermi, l'illusione di colori fortissimi che si sono rivelati trasparenti e sporchi.
Forse è così che l'ho bucata per prima.
La mia foga, il mio exploit di emozioni mai espresse, ha bucato il foglio allo stesso modo della mia primaria apatia.
Ho dormito con la tela sul letto, sperando in qualche modo che la mia vicinanza la rammendasse, e invece niente.

Cari signori imbellettati, care scarpe lucide a fingere un minuetto.
Care donne leggiadre senza un passato e con il futuro tanto sfavillante quanto effimero, non sapete cosa vi sto dando in pasto.
La grande anonima artista degli acquerelli qui presente, dal nome d'arte Grevebianca, vi ama per svariati motivi.
Da quando mi avete invitato in uno dei vostri yacht, ho dipinto solo con l'acqua sporca del fiume dov'era annegata, dove continua ad annegare ogni giorno alla stessa ora.

Il risultato è sempre una tela bianca e un po' infangata, il finale è sempre una tela con un buco.
Un cucchiaino sbattuto su un bicchiere di champagne per annunciare la nascita dell'ennesima organizzazione no‐profit per regalare gioielli alle donne più bisognose, mi aiuterà a ripercorrere di nuovo la mia storia.
Le parti si sono invertite.
Grevebianca sta dipingendo, io sono la tela che non esprime nessun colore.
Non c'è nessun disegno, ma voi vedete tutto.
Voi vedete del talento, vedete della bellezza.
Vedete raggianti gialli, frastornanti cremisi.
Vedete millecento me che scivolano giù dalla collina con lei.
In reatà le sto solo dando l'onore di annegarmi, di trapassarmi più volte, con questi acquerelli di fiume.

Tele voodoo, ditemi a che punto devo sentirmi bene.

Voi non c'entrate nulla, per quanto senza voi questa mia esecuzione pubblica non avrebbe senso.
Le tragedie personali, come le arti, come i vostri deliziosi impianti agli zigomi, per essere tali hanno bisogno di testimoni.

Tele voodoo, ditemi a che punto devo perdere i sensi.