Ciceruacchio (Angelo Brunetti)

(Roma, settembre 1800 ‐ Porto Tolle, 10 agosto 1849) 

A Roma non piove molto, ma quando il cielo decide che è ora di piangere, manda giù tanta di quell’acqua che noi romani diventiamo scemi. No, non scherzo. Noi siamo avvezzi al sole, ci crogioliamo sotto la sua luce e non conosciamo nebbia, neve, bora né nubifragi.
Siamo un po' come le lucertole, usciamo solo con il bel tempo e, visto che c'è sempre il sole, usciamo sempre. Ma quando piove… Quando piove e siamo costretti a mettere il muso fuori di casa causa lavoro, noi romani impazziamo. Se con il sole siamo soliti usare gli autobus e la metro, con la pioggia montiamo tutti in macchina, terrorizzati all'idea che una singola goccia d'acqua possa bagnarci.
E allora vedi l'Urbe divenire un'immensa pozzanghera, straripare di autovetture in fila per ore per giungere a destinazione, con gli automobilisti che smadonnano e si insultano reciprocamente, dando la colpa al tempo se fanno tardi. È follia, ma è sempre così.
Quando piove, Roma va in tilt. Figuriamoci se dovessero scendere due fiocchi di neve!
Osservo in silenzio le macchine incolonnate, imbottigliate nel caos cittadino, mentre me ne sto sotto l'ombrello in attesa che arrivi l'autobus che mi conduca al lavoro, stando bene attenta a non farmi schizzare dalle automobili che passano sulle buche piene d'acqua piovana.
Alcuni vigili provano a sfidare l'ira degli automobilisti, ricevendo in cambio insulti e minacce sussurrati a fior di labbra. Solo un singolo essere sorride divertito, un uomo che mi sta vicino, senza alcun riparo e che guarda con sommo disprezzo la follia che scivola dinanzi ai suoi occhi. Lo sbircio e mi accorgo che, a dispetto della pioggia, è asciutto e veste un po' dimesso.
Lo osservo meglio e subito dopo sgrano gli occhi, esclamando:
«Ciceruacchio!»
Lui si volta a guardarmi e sorride, illuminandosi in quel volto rotondo che ispira fiducia e tranquillità
«Ma tu guarda 'sti romani di oggi!» esclama con il suo forte accento romanesco.
«Ai tuoi tempi era diverso.»
«Lo puoi dire forte, ragazza mia! E non c'era neppure questo rumore assordante al quale voi vi siete assuefatti. Tutt'al più si potevano udire gli strilloni in Campo Marzio, o a piazza Navona, o lo stridio delle ruote delle carrozze sul selciato oppure il calpestio degli zoccoli dei cavalli. Tutto questo…» e fa un gesto con la mano, «roboante rumore non c'era.»
«Si viveva meglio, eh?» commento divertita dalla sua aria disgustata.
«Eccome!»
Esito un attimo, quindi abbasso il mio ombrello e mi accorgo che la pioggia devia, non mi tocca, come se fossi coperta da una invisibile campana di vetro. Come al solito la gente non ci vede neppure e torno a guardare lui, con quei suoi baffoni scuri e quel pizzetto che quasi fanno sparire la bocca.
«Perché il soprannome Ciceruacchio?» domando curiosa.
«È una corruzione di ciruacchiotto, ossia cicciottello. Ed io lo sono sempre stato, fin da piccolo.»
«Tu sei nato e vissuto a Roma in un periodo un po' turbolento.» ricordo.
Scuote la testa annuendo e si accarezza il ventre prominente.
«In effetti, dopo la rivoluzione francese si annusava in giro aria di ribellione ovunque.»
«E tu ti sei dato da fare.»
[images] Lo vedo corrucciarsi e scurirsi in volto, quel volto rubicondo che i romani avevano imparato ad amare e rispettare, nonostante fosse solo un semplice oste.
«Con il mondo che cambia, che riscatta la sua libertà, secondo te cosa avrei dovuto fare? Starmene con le mani in mano?»
Non rispondo, consapevole che ha ragione. È destino che alcuni uomini sentano maggiormente il richiamo della Storia, seppur inconsapevolmente, e lui è uno di questi. Non a caso, durante la Repubblica Romana, si diede da fare per far passare armi e vettovaglie ai combattenti e al popolo di Roma.
«So che i romani hanno sempre guardato a te come il portavoce dei loro sentimenti.»
«Ero il loro specchio, il riflesso di loro stessi!» esclama soddisfatto. «Essendo un oste, conoscevo più che bene il malumore dei miei concittadini, che si riunivano nel mio locale per parlare male o bene di taluna persona o di tale nobile o porporato. La gente si confidava con me ed io ascoltavo. Ed essendo sempre stato socievole e bontempone, ho preso le redini in mano quando si è trattato di eleggere il nuovo papa.»
Sgrano gli occhi e chino la testa di lato, incredula.
«Tu hai eletto il nuovo papa?» esclamo.
«Ma no! Certo che no!» risponde quasi offeso. «Con l'avvento di Pio IX Mastai Ferretti, mi feci portavoce del malcontento popolare e riportai con la mia dialettica diretta, priva di retorica, tutta l'ansia dei romani che da tempo attendevano riforme.»
Espiro, inconsapevole di aver trattenuto l'aria e subito dopo sorrido. Be', capita di fraintendere.
«Addirittura,» riprende con il suo vocione, «ho ringraziato pubblicamente il nuovo papa per aver concesso la libertà ad alcuni prigionieri politici e ho offerto da bere nella mia osteria. Ah, sì.» sospira e un velo di malinconia ricopre i suoi occhi attenti. «Che festa abbiamo fatto! Fino a sera tardi, al lume delle torce e delle fiaccole, tutti a bere e cantare e mangiare: sembravano tornati i bei tempi andati.»
Rimango in silenzio, domandandomi a quali bei tempi si riferisse e, a dispetto della mia ricerca nella memoria, non trovo nulla che possa definirsi tale. Forse è solo un suo sentimento personale. Di certo l'Italia non percorreva un buon periodo, vista la dominazione francese e austriaca.
«A Porta del Popolo, poi,» continua con aria estasiata, «abbiamo acceso un fuoco enorme, richiamando tanti di quei romani che tu non puoi immaginare.»
Sogghigno, immaginando un concerto dei Queen, o dei Led Zeppelin, o dei Pink Floyd e neppure rispondo, lasciandolo crogiolare nel suo ricordo. E in quel lasso di tempo mi rendo conto di quanto possano essere cambiati i tempi nel volgere di un solo secolo, stravolgendo le abitudini e lo stesso pensiero.
«Ma poi qualcosa è cambiato.» noto.
China mestamente la testa al ricordo bruciante e si morde le labbra.
«Avevo riposto grande fiducia nel nuovo papa, tanto da sperare fino all'ultimo che avrebbe veramente cambiato le cose. Ma quando è fuggito, facendo crollare anche la Repubblica Romana, ho aperto gli occhi.»
«Non poteva essere il successore di Pietro il riformatore, vero?»
«No.» ammette controvoglia. «E l'ho capito a mie spese. È fuggito abbandonando Roma nelle mani dei francesi. Ti lascio immaginare gli avventori della mia osteria: indignati, offesi e furiosi era a dir poco. Io con loro.»
Annuisco, eppure non so se riesco a capire appieno il suo stato d'animo. Di certo non deve essere stato facile vivere in quel periodo di stravolgimenti emotivi. Da una parte la Francia che insegnava con la sua rivoluzione e con l'avvento di Napoleone, dall'altra l'Austria e la Prussia con le loro ancor solide radici nel medioevo, impermeabili a qualsiasi capovolgimento, insofferenti a ogni riforma. E ognuna di loro con basi stabili, o semistabili, in Italia.
In effetti, noi giovani di oggi cosa possiamo saperne dell'occupazione, delle restrizioni, dell'impossibilità di esprimere le proprie opinioni, della morte che si annida dietro ogni angolo? Salvatore Quasimodo ne sapeva qualcosa e la sua meravigliosa "Alle fronde dei salici" è lì a testimoniarlo.
«Anche tu sei fuggito.» commento.
«Be', a dir la verità, visto come si mettevano le cose, ho preferito seguire Garibaldi. Hai presente Garibaldi?» domanda con aria da inquisitore.
«Eh, sì.» sospiro annuendo.
Mi fissa a lungo, come se la mia espressione non gli piacesse e provo a piegare le labbra in un sorriso amichevole.
«Aho, regazzì,» mi riprende alzando l'indice come un maestro e agitandomelo sotto il naso, «guai se ti vedo deridere il nostro Garibaldi. Non te lo permetto.»
«Non lo permetterei a me stessa.» ribatto. «So bene chi fosse Garibaldi e ne ho profondo rispetto, nonché stima.»
«Ah, be'.» commenta compiaciuto.
Lo vedo rilassarsi in volto e porta le mani dentro le tasche del panciotto, con aria soddisfatta.
Rimango a osservarlo, in attesa che continui il racconto e, quando si rende conto del mio prolungato silenzio, mi fissa e chiede brusco:
«Be'? Che hai da guardare?»
Esito, non sapendo bene cosa dire, quindi rispondo:
«Guardo un eroe romano.»
Quella risposta lo compiace e sorride beota.
«Be', forse hai ragione.» risponde. «In finale, ho dato la mia vita per Roma, per la sua libertà. E con me l'hanno data i miei due figli, il più grande e il più piccolo, poco più di un bambino.»
[cicer] «Sì, ricordo. Gli austriaci non hanno avuto pietà di un ragazzino.»
«Già.» ringhia con espressione furiosa. «Ci vuole coraggio a fucilare un tredicenne mingherlino.»
Avverto il sarcasmo e convengo con lui. Non deve essere facile affrontare la morte a viso aperto, figuriamoci poi se al fianco ti ritrovi con due figli che debbono fare la tua stessa fine. Me lo immagino, Ciceruacchio, provare a coprire con il suo corpo massiccio il figlio minore, nella speranza di salvarlo dal plotone di esecuzione.
«Sei morto lontano dalla tua Roma.» commento.
«E pensare che quando ero partito, speravo di contribuire alla sua liberazione. Sai,» mormora sconsolato, «con Garibaldi volevo dare una mano a Venezia che resisteva agli austriaci, ma ci siamo dovuti fermare al Delta del Po, per sfuggire alle vedette nemiche. Abbiamo chiesto rifugio ai connazionali, ma quei bastardi di italiani, anziché aiutarci, ci hanno denunciato agli austriaci, i quali hanno provveduto a fucilarci senza perdere tempo. Comprendi? Noi, italiani che volevamo scacciare gli oppressori, denunciati dai nostri stessi concittadini! Roba da non credere.»
Scuoto la testa come lui, pensando che fosse normale per gli italiani dell'epoca, divisi per secoli, non provare un sentimento di unità nazionale. Troppo diversi. Troppi dialetti diversi. Troppe frontiere. Ma, chissà perché, questo solo pensiero non mi consola dinanzi alla vista di italiani che tradiscono gli stessi italiani. Quello che mi colpisce e mi ferisce, è che oggi, tutto sommato, la pensiamo ancora come quei contadini del Delta del Po.
«Oggi, però, riposi al Gianicolo.» lo consolo.
Sorride e in un gesto affettuoso mi dà un buffetto sulla guancia.
«Aho, regazzì, e mica è da tutti!»
Rido della sua romanità e in quel momento sento la pioggia inumidirmi la tesa. Alzo lo sguardo e mi bagno il volto, ricordando che avevo chiuso l'ombrello perché riparata dalla presenza di Ciceruacchio.
Quando mi giro per salutarlo, non c'è più e la pioggia sul mio viso mi sembra all'improvviso come un pianto silenzioso per tutte quelle vite donate per un ideale che oggi nessuno sente più.