Claudio Cesare Nerone

(Anzio, 15 dicembre 37 ‐ Roma, 6 aprile 68)

È buio ed io vago per il Colosseo illuminato a giorno dai riflettori, come una qualsiasi turista, immaginando i giochi, le battaglie, le grida, il sangue che i secoli hanno cancellato, lasciando solo il ricordo di un'opera mastodontica e di sicura invidiabile bellezza. I gatti sono ora i padroni indiscussi e nei loro dolci miagolii riecheggiano i ruggiti di leoni, tigri e leopardi che un tempo vi soggiornavano e vi banchettavano.
«Se solo avessi potuto cantare qui!»
A quelle parole improvvise mi fermo e mi giro, fissando quel volto largo, non particolarmente bello, che risplende alla luce dei riflettori. Se ne sta lì, seduto come poteva esserlo un semplice romano dell'epoca e lo sguardo gli brilla di malinconica eccitazione.
Esito, nonostante tutto timorosa, ben conoscendo la sua indole crudele e rimango a debita distanza.
«Non è questo il tuo posto, Nerone.» gli faccio notare. «Gli imperatori sedevano laggiù.» e ammicco verso il palco.
Lui scuote la bionda testa e ribatte, come se neppure avessi parlato:
«Se solo questa meraviglia fosse esistita ai miei tempi, non me ne sarei andato in Grecia per recitare, cantare e partecipare ai ludi equestri.»
È vero, conosco queste sue passioni e so bene pure che, se solo chicchessia avesse osato vincere una gara canora al suo posto, lo avrebbe fatto uccidere seduta stante. Quando recitava o scendeva in pista come auriga, pretendeva di vincere anche se arrivava ultimo e tutti l'avevano capito a menadito dopo i primi morti.
Mi guardo attorno, per accertarmi che i turisti non lo vedano e muovo cauta un passo verso di lui. In mano ha la lira e di tanto in tanto pizzica una corda, creando una straziante melodia.
«Il nipote di Caligola.» commento. «L'ultimo della stirpe Giulio‐Claudia.»
«L'ultimo folle.» sogghigna ironico.
«Io non ci credo. Non ho mai creduto che tu abbia deliberatamente incendiato Roma nel 64.»
Quella affermazione cattura la sua attenzione e posa i suoi occhi inquietanti su di me, incutendomi un sano terrore.
«Non l'ho fatto, difatti. Quando l'incendio divampò io ero ad Anzio, la città che ha visto i miei natali; ma non per questo me ne sono dispiaciuto.» ammette con aria birichina.
«Ah, no?» esclamo allibita, tenendo a freno l'ira che in un solo secondo mi ha infiammato il cuore.
«No. Desideravo l'Urbe più bella di come era diventata e dopo l'incendio l'ho fatta riedificare in pianta diversa, aggiungendoci la mia bellissima Domus Aurea. Una delizia per gli occhi, non sei d'accordo?»
«Un tocco di megalomania.» sottolineo. «Però, indubbiamente meravigliosa.» concedo.
Mi guarda, studiandomi dalla testa ai piedi e sotto quello sguardo acuto mi innervosisco. Così, per evitarlo, mi siedo su uno scalino accanto a lui, mantenendo una certa distanza di sicurezza. Non so, eppure di quest'uomo rubicondo non mi fido abbastanza.
«Tutti, però, hanno sempre pensato che la colpa fosse tua.» insinuo.
«Se colpa ho avuto, è stata quella di dire pubblicamente che avrei voluto radere Roma al suolo per riedificarla. Non si può condannare un uomo solo per quello che proferisce.»
Avrei molto da ribattere su quell'affermazione, tuttavia lascio perdere, ricordando chi ho di fronte e che ruolo ha ricoperto e borbotto:
«Ma tua è stata la colpa di punire i cristiani come rei dell'incendio.»
Alza le spalle con indifferenza e borbotta:
«Non conoscevo questi cristiani; sapevo solo vagamente della loro esistenza e mi è parsa la giusta mossa per far sfogare il rancore del popolo dopo il rogo che ha distrutto le case. Qualcuno doveva pur pagare, no? E chi meglio dei remissivi cristiani poteva essere innalzato a capro espiatorio? A chi vuoi che importava?»
Rimango allibita e senza parole e la mia espressione deve avere un qualcosa di buffo, perché lui si mette a ridere con spregio, lasciandomi capire come la pensassero, all'epoca, sulla religione che stava piantando solide radici per divenire mondiale. Scuoto la testa e lo vedo che torna a pizzicare le corde, intonando una canzone in voga ai suoi tempi: tutto sommato, devo riconoscere che non ha una brutta voce.
«Tua madre era Agrippina minore, la sorella di Caligola.» inizio.
Al solo nominare sua madre, si scurisce in volto, smette di cantare e mi fissa con astio, come se avessi appena attentato alla sua vita.
«Già.» biascica e il suo tono mi sorprende. «È stata lei a spianarmi la strada per divenire imperatore, affiancandomi Seneca come consigliere.»
«Per i primi anni sei stato un buon sovrano.» ricordo.
«Sì, ma poi il rifiuto di mia madre a concedermi di divorziare dalla mia prima moglie Ottavia, mi ha irritato a tal punto che l'ho esiliata.»
«L'hai anche fatta uccidere dai tuoi pretoriani.» aggiungo.
Fa' un gesto di insofferenza, come se il ricordo lo infastidisse ancora dopo tanti secoli e spiega:
«Sono salito al potere a diciassette anni e lei ha guidato le mie azioni con l'appoggio di Seneca, fino a farmi soffocare. Era invasiva all'inverosimile, tanto da giungere a offrirsi a me, suo figlio, purché non divorziassi da Ottavia.»
[Nerone1] Sgrano gli occhi e inorridisco al solo pensiero e vedo che anche lui scuote la testa con rassegnazione.
«Non capirò mai,» conclude meditabondo, «perché non volessi che sposassi Poppea.»
«La Poppea che hai ucciso tirandole un calcio in grembo, dove cresceva tuo figlio?»
Chiude gli occhi e inspira a fondo, mentre un velo di malinconia lo sfiora, rendendolo quasi umano.
«Ho amato molto Poppea e ho sofferto per la sua perdita. In seguito, errando come un pazzo per le vie dell'Urbe invocando il suo nome, mi sono imbattuto in Sporo, un giovane che le somigliava tantissimo. L'ho sposato dopo averlo fatto castrare.»
«L'hai sposato?» ripeto come se non avessi ben capito e il tono aspro della mia voce sorprende me stessa.
Riapre di scatto gli occhi e mi fissa con evidente astio.
«Sì, l'ho sposato, e allora? E dopo di lui ho sposato Statilia Messalina.»
«"Quella" Messalina?»
«Ma no!» esclama facendo un gesto di stizza con la mano. «Quella era la quarta moglie di Claudio. Noto che hai un po' di confusione in testa.»
«Be', con nomi uguali… Ma tu,» riprendo cambiando discorso, «alla fine hai esiliato pure Seneca, prendendoti Tigellino come amico e consigliere.»
Lo sento grugnire qualcosa e dalla sua lira parte un suono stridulo che mi fa serrare i denti prima che cadano a pezzi.
«Bell'affare feci.» commenta acido. «Mi ha fatto credere di essermi amico e poi mi ha tradito. La prima congiura per uccidermi è costata la vita a Calpurnio Pisone, Lucano, Petronio e lo stesso Seneca. Via,» conclude con tono spicciativo, facendo schioccare le dita, «morti tutti per aver osato alzare la mano armata su un dio.»
«Tu?» insinuo mordace.
«Io, sì.» sibila minaccioso, puntandomi addosso due occhi fiammeggianti. «Non digerivo granché l'idea che a qualcuno piacesse vedermi morto. Ero giovane e non gradivo divenire cibo per far banchettare i vermi.»
«Però li hai rimpinzati a dovere con la carne di tutti coloro che hanno provato a ribellarsi alla tua monarchia assoluta.»
«E dunque?» mi sfida ergendosi fin dove possibile stando seduti. «Non vedo dove sia il problema.»
[images] Rimango sconcertata, apro la bocca per replicare, quindi la richiudo di scatto e dopo un po' ripeto:
«Già. Nessun problema.»
Il mio tono non deve fargli molto piacere, poiché stringe gli occhi, fissandomi a lungo da sotto le ciglia bionde.
«Tu, figliola, non hai buon animo verso di me.» commenta.
Sorrido e mi rialzo, volgendo l'attenzione ai turisti che, ignari, ci passano accanto sfiorandoci senza vederci.
«La tua condotta immorale e violenta non ha mai influito sull'amministrazione pubblica e questo va a tuo vantaggio.» mormoro.
«A mio vantaggio pure il fatto che il popolo non ha voluto credere alla mia morte e che ha sempre sperato nel mio ritorno.» aggiunge alzando l'indice come un maestro che sta spiegando una lezione.
«Vero.» concedo. «Eppure il senato e i pretoriani ti odiavano e ti hanno isolato, condannandoti a morte.»
Si scurisce in volto, quel volto massiccio e duro e digrigna i denti sibilando furente:
«Quel fedifrago di Tigellino! Mi ha tradito, quel bastardo!» ripete ed io mi accorgo che la cosa gli rode ancora l'anima.
«Non mi risulta sia mai stato uno stinco di santo.» gli faccio notare con condiscendenza. «Avresti potuto essere un po' più oculato nello sceglierti gli amici.»
Sogghigna, lo sguardo perso in un periodo lontano che io non vivrò mai e mormora:
«Non gli ho dato la soddisfazione di uccidermi: l'ho fatto da solo.»
«Come un vero commediante. Così come hai vissuto.»
«Hai paura della morte?» domanda a bruciapelo, scrutandomi fin dentro l'anima.
«Sì.» non esito a rispondere. «Come tutti, del resto.»
«Io non ho avuto timore.» risponde gonfiando il petto.
Inarco le sopracciglia, ricordando che la paura l'aveva trattenuto dal pugnalarsi da solo e che era stato aiutato da un liberto suo amico; ma non ribatto, lascio che si crogioli in un ricordo affievolito dal tempo, un ricordo che gli fa credere di essere stato migliore di quanto in realtà fosse stato.
«Quindi, deduco che tu abbia avuto a cuore Roma.» commento cambiando discorso.
Con un gesto della mano mi mostra il Colosseo e il suo volto si illumina.
«Tu non l'hai a cuore?» rimanda. «Per Roma ho sopportato che la Storia mi bollasse come piromane, quando in realtà ho portato solo migliorie. Ma, si sa, la Storia la scrivono i vincitori ed io, purtroppo, ne sono uscito vinto.»
Lo studio a lungo, mentre riprende a pizzicare le corde della lira e intona una canzone dolce, che non comprendo e mi rendo conto che quest'uomo, tutto sommato, è stato sì crudele nella sfera affettiva, ma nei romani ha lasciato un senso di vuoto e di rimpianto che noi, romani di oggi, stentiamo a comprendere.
E non è un caso se la sua tomba è rimasta sempre coperta di fiori, a dispetto dei congiurati e a testimonianza dell'affetto di un intero popolo.