Colori

Antonio indossò i pesanti guanti di protezione, come tutte le mattine, e cominciò a lavorare. Trainò in avanti il carrello, sistemò il sacco per raccogliere i rifiuti e, afferrata la ramazza, guardò innanzi a sé il lungo rettilineo grigio puntellato da cartacce, foglie secche, sacchetti e bottiglie abbandonate alla rinfusa nelle aiuole dei marciapiedi e nella sciara. Erano le sei del mattino e puntualmente cominciò il suo turno di lavoro, lui che era un lavoratore solerte e rispettoso, che mai aveva ricevuto una contestazione disciplinare. Ormai da anni faceva questo lavoro di netturbino, un lavoro come tanti, giusto per campare. Certo ci si sporcava le mani, spesso si veniva derisi per la strada, soprattutto dai ragazzini arroganti perché forti del loro futuro ancora intatto, ma la ditta era “buona”, pagava da contratto, ti pagava la malattia, e se rendevi ti dava anche un premio. La luce del sole alle sei del mattino è particolarmente dolce e l’aria, in questa bella stagione, ha un tepore che pare una carezza. Antonio volse lo sguardo verso il cielo perché gli piaceva ammirare il suo colore, e l’intreccio delle nuvole e, quando veniva l’autunno, anche gli stormi di uccelli che in blocco si  preparavano alla migrazione. Gli piaceva sentire il soffio leggero e carezzevole della brezza che lo rinfrancava della sveglia mattutina e lo emozionava prima di cominciare a spazzare. In passato gli capitò di lavorare al cimitero, il posto più orribile dove si potesse svolgere il suo lavoro. Fortunatamente i turni non erano mai notturni, ma si lavorava dalle sei a mezzogiorno, tranne ovviamente l’uno ed il due di novembre, quando si facevano gli straordinari. I suoi colleghi più fantasiosi si divertivano a raccontare, soprattutto ai più giovani o ai più sprovveduti, inverosimili storie di spettri capitate laggiù durante il lavoro. Alcuni ci credevano e rimanevano terrorizzati. Proprio a costoro il sorvegliante della zona decideva di far fare il turno serale dello straordinario: “ Picchì s’ana fari l’ossa” diceva, ma in realtà perché lo divertiva vedere innanzi a sé il malcapitato sbiancato dalla paura, che lo supplicava di non mandarlo a fare quel lavoro. E allora ecco che arrivava la contestazione disciplinare per insubordinazione, ed allora cominciava una sorta di grottesco inseguimento tra predatore e preda senza alcuno scopo, solo per il gusto di stabilire una supremazia o anche solo per passare il tempo. Antonio aveva vissuto tante situazioni come questa, ma fortunatamente mai in prima persona, lui che amava farsi i fatti suoi e starsene in disparte. Adesso lavorava in una zona vicino al mare, scostata dal centro, dal mercato, dalla pescheria, tutte zone in cui il lavoro era più duro e pesante. Mentre spazzava udiva il suono della ramazza che strisciava sull’asfalto quasi ansimasse ritmicamente e, senza che qualcuno se ne potesse avvedere, volgeva lo sguardo, i suoi occhi, verso il mare. Esso era lì disteso placidamente, la superficie leggermente increspata dalla brezza mattutina, la linea netta dell’orizzonte spezzava il suo azzurro intenso dal tenero celeste del cielo, e coriandoli dorati scintillavano sull’acqua gettati dal sole festoso del mattino. Oltre la curva si vedevano in lontananza i lidi, con le cabine di legno in costruzione, e qualche ombrellone chiuso piantato nella sabbia. I pedalò erano già sistemati in un’area a parte recintata da un cordone azzurro, e qua e là qualche bagnante in costume andava in spiaggia a prendere il sole. Quella era anche la zona degli alberghi, tutti bianchi con le imposte in legno o verdi o azzurre, e con il giardinetto davanti affollato di palme gigantesche. Già dal mese successivo questa zona sarebbe stata invasa dai turisti italiani e stranieri tutti biondi e bianchi di carnagione, pronti a scendere in spiaggia con le biciclette colorate. Antonio amava osservarli mentre pedalavano, lucidi di crema protettiva e coperti malamente dagli abiti variopinti, verso la spiaggia o verso il centro storico. Tutto ciò guardavano gli occhi di Antonio mentre la ramazza continuava ad ansimare ritmicamente sull’asfalto. Tutto ciò rimaneva impresso nel cuore di Antonio mentre il sudore affiorava inesorabile sulla sua pelle. Intanto aveva raccolto tanti mucchi di immondizie, e riempito il suo sacco. Ormai era mezzogiorno ed il turno di lavoro era finito, così come era finito il lungo rettilineo, e l’immagine dei lidi all’orizzonte scompariva pian piano dalla vista. Si recò al posto di firma, timbrò il cartellino e ripose ramazza e carrello nel deposito, lasciando il sacco chiuso perché chi di dovere lo caricasse e lo portasse alla discarica. Anche per quel giorno il lavoro era finito, il tributo di fatica alla società era stato pagato ed il pane era stato guadagnato onestamente. Tutto era a posto! Antonio si incamminò verso casa, con le mani finalmente libere dal peso dei guanti di protezione, raggiunse la sua autovettura e si diresse al quartiere popolare dove viveva con sua moglie e una bambina piccola di quattro anni. Le trovò nella cucina angusta, l’una indaffarata a preparare il pranzo, e l’altra intenta a giocare con carta e colori. Provava una grande tenerezza per questa sua piccina, per tutte le privazioni a cui la sottoponeva a causa di una insanabile mancanza di danaro. Eppure sempre si riprometteva che qualunque sacrifico avrebbe fatto pur di garantirle una vita migliore. Consumò il pranzo in silenzio, e non appena ebbe finito lento si alzò dal tavolo e si diresse verso la porta. Dalla cucina la moglie spazientita gridava: “Nun ti peddiri, com’o solito”. Antonio, dopo aver pranzato, aveva l’abitudine di allontanarsi da casa e di isolarsi. Prima di uscire di casa entrò in camera da letto e prese una valigetta contenente delle tempere e dei pennelli, il suo cavalletto, una tela bianca ed uno sgabello. Andò via e si diresse verso la scogliera, in un punto isolato che conosceva bene. Dispose il cavalletto, fissò la tela, si sedette sullo sgabello e aprì la valigetta con le tempere. I colori colavano dai tubetti sulle sue mani, e coprivano quel lerciume che il suo lavoro vi aveva stratificato. Impastava i colori per inventare le tonalità più impensate, quelle più vicine alla sua immaginazione, ai suoi sogni, alle sue visioni. Miscelando quei colori si sentiva come se qualcosa si sciogliesse dentro di sé, come se un grumo grande come il suo stomaco finalmente si dissolvesse e lui si sentiva leggero e libero e, finalmente, in pace con il mondo. Aveva tante tele dipinte nella sua casa, e sua moglie non ne aveva mai appesa una alle pareti, non le piacevano, anzi la facevano vergognare perché sembravano i disegni di un bambino. Ma su quelle tele l’anima di Antonio urlava forte la gioia della sua evasione.