F. Semper e la Milano - San Remo

Questa notte mi sono svegliato, come spesso mi accade, e sono rimasto per un po’ a ruminare pensieri legati a due o tre banali accadimenti di ieri. Quasi inavvertitamente ben presto sono passato a ricordare e rivivere intensamente, un lontanissimo giorno dei miei ventidue anni. Ciclista professionista nella squadra F. soltanto da due mesi, correvo quel giorno la mia prima Milano ‐ San Remo. Poco prima del via ero stato avvicinato dal direttore sportivo della nostra squadra che senza preamboli mi aveva detto: ‐ Te Fabrizio che sei nuovo e che non mi puoi aiutare per far vincere il B, allora, se ci riesci, vai via “alla morte” al ponte lungo, quello dopo l’albergo del Mario, e cerchi di arrivare da solo sulla cima del Turchino, che lì c’e il cinegiornale e forsi anca la TV. Ti te alzi e fai vedere la maglia ben bene, davanti, dove c’e la scritta del frigo ... poi te ti fermi e ti portiamo a casa noi in ammiraglia. ‐ Io feci, forse, un cenno ambiguo che poteva essere o no d’assenso, di sicuro pensai: tu sei matto se pensi io mi vada ad ammazzare di fatica e poi mi ritiri per farmi riprendere la scritta della maglia dal cinegiornale! E poi pensai anche: chi me la dà la forza per andare in fuga alla Milano San Remo! Come sia avvenuto non lo ricordo, ma poi in fuga solitaria mi ci trovai davvero e non dal ponte lungo, ma da molto prima. All’inizio della salita del Turchino ero ormai da molti chilometri sempre più penosamente in difficoltà, avevo un mal di gambe mai provato prima in vita mia e la baldanzosa energia che mi aveva sorretto per quasi due ore era ormai meno di un ricordo. Non conoscevo il mio vantaggio e, poiché ero un ciclista sconosciuto, mai visto e sentito prima, ero stato lasciato solo, preceduto dalle staffette della polizia e seguito dal nulla più assoluto. Cadeva una pioggia gelida mista a nevischio per questo gli spettatori a bordo strada erano pochi, infreddoliti e talmente presi dall’attesa dell’arrivo dei loro campioni favoriti, che molti non si accorgevano neppure del mio passaggio. Solo qualcuno ogni tanto,  per fare qualcosa, mi gridava da dietro: ‐ alè Pippo! ‐ scambiandomi per il compagno di squadra influenzato, che avevo sostituito all’ultimo momento, io infatti portavo sulla schiena il numero a lui attribuito nell’elenco degli iscritti pubblicato sulla “Gazzetta dello Sport”. Giunto, più morto che vivo, ad un paio di chilometri dalla vetta, fui raggiunto a tutta velocità dalla macchina del direttore sportivo che, affacciatosi al finestrino mi disse spiccio: ‐ Te Fabrizio fermati pure, tanto è brutto tempo e quindi non c’è il cinegiornale e nianca la tele! Dai fermati e sali, che dobbiamo tornare dietro al gruppo e pensare a far vincere il B. – Io feci finta di non sentire e, bene o male, riuscii a raggiungere il passo del Turchino ancora in testa alla corsa. Subito dopo mi fermai sul ciglio della strada e non fui raccolto dall’auto ammiraglia del mio direttore sportivo, nè dalle altre auto al seguito della nostra squadra e dovetti aspettare l’arrivo della “vettura scopa” dell’organizzazione. Da allora nella squadra S. fui considerato un “chi credi di essere?” presuntuoso ed insofferente. Ben presto dovetti passare ad una squadra meno importante e la mia carriera ciclistica, mai brillante, si esaurì in pochi anni. Da allora di anni ne sono passati più di quaranta e molte volte ho ricordato e rivissuto quella mia prima Milano San Remo. Talora ho anche provato un po’ d’orgoglio per quella impresa inutile e misconosciuta e per quella piccolissima insubordinazione.