Galla Placidia

(Roma, 389/392 ‐ Roma, 27 novembre 450)

Avete mai percorso la via Appia antica, quella che da Roma si snoda verso il sud d'Italia, passando per Napoli e proseguire oltre, per giungere a Brindisi? Ah, quale sublime spettacolo! Uno dei tanti esempi di come fosse ingegnosa la mente dei nostri avi; il primo modello di rete stradale mai costruito al mondo.
Be', noi romani ce l'abbiamo praticamente sotto casa: bella da mozzare il fiato, unica e irripetibile, con i suoi lastroni di pietra, con i pini che svettano lungo il ciglio e le opere in pietra innalzate ai bordi, che accompagnano il viandante per dare gioia e sollievo agli occhi abituati al grigio cemento e al puzzolente smog.
È quanto mai rilassante passeggiare lungo questa via consolare e rigenerarsi all'ombra di costruzioni millenarie, magari evitando di pensare che qui, lungo il margine della strada, i romani avevano l'abitudine di crocifiggere i condannati. Ma si sa, ogni civiltà ha i suoi scheletri nell'armadio e, mentre mi inebrio di un tramonto rosso fuoco, uno di questi mi appare all'improvviso, dietro un monumento funerario di mirabile bellezza.
Ed esemplare è la sua bellezza. Mi sorride invitante ed io mi avvicino, distraendomi dal tramonto.
«Galla Placidia,» esordisco senza timore, «principessa romana, sorella dell'imperatore Onorio, figlia di Teodosio I e di Galla.»
«Proprio io. Ti meravigli?»
«No, non più.»
Mi fa un cenno ed io lascio la strada per avvicinarmi al monumento funerario con figure in rilievo. Le sfioro con le dita e avverto come una scossa elettrica, come se quei duemila anni di storia mi fulminassero e per un secondo rivedo la via Appia al suo massimo splendore, quando era percorsa da soldati con le calighe e da aurighi con i loro carri.
«È meraviglioso.» sussurro estasiata.
«Qui ci sono nata, anche se la mia vita l'ho trascorsa a Ravenna, quando la capitale dell'impero non era più l'Urbe. Fu lì che Onorio stabilì la corte dopo il sacco di Roma del 410, quando fui fatta prigioniera da Alarico, re dei Visigoti. Fu un evento drammatico.» ricorda con le lacrime agli occhi.
Il mio primo istinto, alla vista di quelle piccole stille, è di abbracciarla e confortarla, ma mi trattengo in tempo, ben ricordando il carattere coriaceo della donna che ho davanti agli occhi. E lei, alzando il mento, inspira con regalità e prosegue:
«La nostra città, messa a ferro e fuoco dai barbari venuti dal nord, a dispetto dei nostri buoni propositi. Non so se ricordi, ma il generale Ezio, allora adolescente, fu dato in mano ad Alarico come ostaggio.»
«Sì, ricordo.» rispondo guardando il suo viso bello e un pensiero fugace mi transita nella mente. «Immagino per quale motivo re Alarico ti abbia fatto prigioniera.»
Lei sorride evanescente e scuote risoluta la testa, a sottolineare che la sua bellezza correva di pari passo con il suo carattere forte e risoluto.
«Oh, no, credimi. Non tanto per la mia avvenenza, quanto per motivi prettamente politici: essendo principessa, potevo aprire molte porte a un conquistatore, soprattutto quella del potere.»
«La prigionia è stata dura?» domando affabile.
Lei china di lato la testa per guardarmi di sottecchi e risponde con dolcezza:
«Nessuna prigionia è bella e neppure la mia, sebbene trattata con tutti gli onori. Non posso lamentarmi, quantunque la mancanza di libertà va ben oltre le pene che si possono patire.»
Annuisco e provo a immaginare una giovane e avvenente nobildonna romana nelle mani di barbari sanguinari, ignari delle regole del vivere civile.
«Ti hanno costretto a sposare un barbaro.» le rammento.
Lei inspira a fondo, come a voler catturare un improbabile profumo d'erica nella brughiera, forse ricordo di giorni trascorsi all'aperto e risponde con un sorriso solare e occhi adamantini:
«Sì, Ataulfo, fratello di Alarico. Però non mi hanno costretto: io ho amato profondamente Ataulfo e ne sono stata appieno ricambiata.»
«Ma era un barbaro.» noto con un evidente accenno di sorpresa.
Lei stringe appena i suoi occhi attenti, quasi avesse voluto fulminarmi e ribatte:
«Tu non hai la più pallida idea. Tu non puoi capire il periodo tumultuoso trascorso dalla nostra amata Roma in quei secoli. Esistevano barbari e barbari e Ataulfo era un barbaro, sì, ma talmente bello e gentile che... Posso asserire che la mia prigionia durò ben poco, perché mai donna prigioniera fu più contenta di essere stata catturata. Lui era tutto ciò che più di diverso si poteva trovare a Roma: non un damerino effeminato, non un signore ingioiellato, non un eunuco, bensì un principe soldato che popola i sogni di ogni fanciulla.»
La vedo risplendere di gioia mentre parla di lui e mi azzardo a chiedere:
«Tuo fratello accettò con lietezza l'evento delle tue nozze?»
«Oh, no! Ataulfo fu costretto a dimostrargli tutto l'amore che nutriva nei miei confronti uccidendo un nemico di mio fratello e facendogli recapitare la testa su un vassoio d'argento.»
Rimango un secondo perplessa udendo quelle parole, eppure capisco che all'epoca simili comportamenti erano la regola.
«Un bel dono, suppongo.»
«Ovviamente Onorio lo accettò e consentì alle nozze, rendendomi la donna più felice del mondo. È così che sono diventata regina dei Goti. Essendo morto Alarico, suo fratello era assurto al trono e impalmandomi ha fatto di me una regina. Puoi immaginare la felicità completa quando nasce un figlio maschio che sarebbe potuto diventare l'imperatore di Roma? Sai,» aggiunge con un sorriso malinconico, «Onorio non aveva figli e il mio poteva essere il suo successore.»
«Poteva?»
La vedo chinare la testa con una regalità da fare invidia e sussurra a fior di labbra:
«Ataulfo perì l'anno successivo alle nozze, subito dopo nostro figlio. Fu lui a volere, prima di spirare, che tornassi da mio fratello.»
«Gentile davvero.» commento sorpresa.
«Non tutti i barbari erano barbari nel senso dispregiativo che diamo a questo aggettivo.» ribatte risoluta. «Io e Ataulfo, che tu voglia crederlo o no, eravamo innamorati e ho odiato l'uomo che me lo ha ammazzato. Comunque,» riprende con tranquillità, «alla fine ho riconquistato la libertà.»
«Non vi è cosa più preziosa.»
«Puoi dirlo forte. Purtroppo, per me non aveva quel dolce sapore che ricordavo nei primi momenti della prigionia. Ero sì tornata tra la mia gente, ma mi sono sentita più in trappola alla corte di mio fratello che non con i miei Visigoti.»
Osservo il suo comportamento altero e dignitoso, degno di una principessa, la sua acconciatura in perfetto stile bizantino e comprendo come molti uomini avessero potuto perdere la testa per lei.
«E poi ti sei risposata.»
«Sì, con Costanzo, un generale di mio fratello Onorio. Un matrimonio combinato prima ancora che venissi presa da Alarico.»
Notando il cambio di tono, mi azzardo a chiedere:
«Non era di tuo gradimento?»
Lei mi rivolge uno sguardo a dir poco esterrefatto e scoppia a ridere, una risata cristallina, proveniente dal cuore, che la rende ancora più bella ed io mi sento insignificante dinanzi a lei.
«Di mio gradimento?» ripete divertita. «Come avrebbe potuto incontrare il mio assenso un uomo grasso, sciatto, vecchio, poco affabile, quando al mio fianco avevo avuto un Visigoto giovane, alto, bello, biondo, forte e che mi ha amato totalmente? Tu avresti accettato? Ho provato, credimi, a rimandare le nozze e per tre anni sono rimasta arroccata in me stessa. Alla fine, per ragioni politiche, ho capitolato.»
«Però gli hai dato Valentiniano, il futuro imperatore romano d'occidente.»
[Galla_Placidia_(rechts)_und_ihre_Kinder] «Già. Valentiniano, il debole e indolente Valentiniano e Onoria, la causa della discesa di Attila in Italia. E li ho dovuti tirare su da sola, dopo essere rimasta di nuovo vedova. Sai, una volta gli uomini morivano con una certa facilità. Era meglio nascere donna.» aggiunge arricciando maliziosamente il nasino. «Comunque, allevare i figli da soli è un compito piuttosto arduo, soprattutto all'epoca. Essere madre dell'imperatore, oltretutto, comportava molte responsabilità e tanti sacrifici.»
«Non stento a crederlo. Ma, se non ricordo male, una volta vedova, un nuovo pretendente si era fatto avanti.»
Lei sgrana i suoi bellissimi occhi e sorride subito dopo.
«Sì, certo, mio fratello Onorio, che in vita sua aveva amato solo le galline e i polli! Non l'ho mai potuto sopportare e scoprire di essere oggetto dei suoi desideri mi fece ridere all'epoca come mi fa ridere ora. Fortuna per me che è morto poco dopo.»
Con le dita affusolate tocca un lembo della veste che indossa e liscia una piega a me invisibile.
«Eppure tu sei tornata a Roma da Ravenna.» insisto.
Lo sguardo le si illumina, prende vita e con la mano mostra la città che si stende maestosa sotto i nostri occhi.
«Ravenna, all'epoca, era la capitale dell'impero d'occidente dopo che mio padre lo aveva scisso in due e lì risiedeva l'imperatore romano. Ma come si può abbandonare questa meraviglia? Oh, se solo tu avessi potuto mirarla ai tempi del suo massimo splendore, avresti sacrificato la vita per farla rimanere così in eterno.»
Giro lo sguardo sulla via Appia e il mio pensiero corre alle macchine incolonnate nell'eterno traffico, alla gente che imbocca l'entrata della metropolitana in un eterno tramestio, odo le urla e le grida di chi non riesce a prendere il bus perché eternamente affollato e sospiro: decisamente Roma è la città eterna.
«Sì, hai ragione.» ammetto. «All'epoca si poteva pensare benissimo di donare la vita per Roma. Ma ora…»
«Ora la capitale del mondo riesce a farsi odiare.» conclude lei con rammarico. «Ero tornata a Roma per far proclamare Valentiniano imperatore; in realtà, conoscendo il suo carattere debole, ho fatto io da imperatrice fino alla mia morte. Ho provato con tutte le mie forze a giostrare tra politica e religione pur di mantenere intatta la parte di regno lasciata da mio padre, quel regno che Alarico e Ataulfo speravano incamerasse i Goti, per vivere insieme in pace. Una politica saggia la loro, ma che lo stolto di mio fratello non ha voluto, o non ha saputo, capire. Strano, vero,» commenta con un sorriso ironico, «che la grandezza di un impero stesse a cuore a dei barbari più che al suo imperatore.»
«Sì, strano davvero. Ma tu,» domando timidamente, «non ti sei mai più risposata?»
«A che pro? Ho vissuto un'intera vita nel dolce ricordo di Ataulfo, tanto da sapere che nessuno mai avrebbe potuto prendere il suo posto nel mio cuore. Ho preferito rimanere sola, con i miei figli capricciosi che mi hanno dato tanti grattacapi. Chiamami pure romantica, però così ero e così sono.»
Annuisco appena, comprendendo quanto fosse stato difficile per lei recitare un ruolo che avrebbe dovuto essere di competenza del fratello prima e del figlio dopo.
«È per il tuo romanticismo che sei voluta venire a morire a Roma?»
«Sì. Quando mi sono resa conto che stavo per raggiungere il mio Ataulfo, ho lasciato Ravenna e sono tornata nell'Urbe, per rivedere un'ultima volta la città eterna.»
«Devi essere fiera di aver donato a Roma uno degli imperatori.» commento.
Lei sorride dolcemente e annuisce.
«Ne sono fiera e me ne compiaccio. Non sono tante le donne che possono vantarsi di aver fatto altrettanto.»
Chino la testa trovandomi d'accordo con lei e un secondo dopo la vedo svanire, sorridendo compiaciuta del nostro fortuito incontro. D’istinto allungo la mano per trattenerla, inconsciamente riluttante a separarmi da quella creatura eccezionale.
Ma intorno a me rimane solo la via Appia, la via consolare che noi romani abbiamo sempre sotto gli occhi e che neppure scorgiamo, troppo intenti a eternare una vita frenetica.