Il cucchiaio d'argento ovvero storia di un cabaret

Benito Plantone,
a Giorgio, a Franco, a Gabriele,
alle loro passeggiate  solitarie
“Quando potrò andare al supermarket e comprare solo con la mia bellezza?”
(Allen Ginsberg) Ogni mattina si svegliava tardi, non prima delle undici. A causa del proprio mestiere, rientrava a tarda notte. I suoi risvegli mattutini non erano mai buoni. Quando apriva gli occhi provava un forte senso di nausea, malessere, intolleranza. Appena sveglio guardava l’orologio posto sul comodino, e nel vedere le lancette che segnavano sempre orari post le undici, iniziava a sentire un senso di colpa. Le sue giornate trascorrevano in maniera ordinaria. Per assicurarsi un buon risveglio, preparava un forte caffè. Viveva da qualche anno in un piccolo appartamento, situato al terzo piano di un palazzo della periferia.
Mimmo Ortale, era un cinquantenne alquanto particolare. Portava capelli lunghi brizzolati, folte basette, un lungo pizzetto, e un orecchino a cerchietto nell’orecchio sinistro. Da qualche anno, a causa dell’età che avanzava, e delle birre che deglutiva, la sua pancia iniziava a pronunciarsi sempre di più. Lavorava da un anno in un locale del centro, chiamato “Caffè Ionesco”, quattro giorni a settimana si esibiva nel locale, proponendo ai clienti il suo spettacolo da cabarettista esilarante. Veniva supportato da una band composta da tre persone: oltre ad allietare gli animi dei clienti col suo umorismo, Mimmo e la sua band suonavano brani del passato in versioni rivisitate: era un buon contro bassista e sassofonista. Nei giorni in cui Mimmo con la sua band si esibivano, il locale si riempiva di persone, e loro riscuotevano un ottimo successo di applausi.
Vederlo sul palco, con i suoi abiti da cabarettista: gilè di raso, camice floreali, cappello a cilindro, appariva una persona effervescente, dall’animo brasiliano.
Ogni mattina, dopo aver consumato il suo caffè risvegliante, Mimmo usciva di casa. Il suo era un rituale che da due anni si ripeteva. Prendeva la propria macchina, una vecchia Volvo color amaranto, e percorreva sempre la solita strada. Parcheggiava l’auto dinanzi l’entrata del cimitero. Camminava nei viali contornati da alti cipressi, fino a giungere dinanzi quella lapide. Da due anni faceva visita ogni giorno a quella tomba, ma non aveva mai portato un fiore. All’apparenza quella, appariva una tomba abbandonata:  un povero defunto, a cui nessuno faceva visita.
Mimmo restava davanti la lapide per intere ore. Pensando, meditando e commuovendosi. Quel cimitero, quella tomba, apparivano un luogo della memoria. La sua vita spesso gli scorreva davanti. Ripensava alla propria giovinezza, a quando era un promettente sassofonista, ripensava al suo prematuro matrimonio, ripensava al suo prematuro divorzio. Gli sbagli gli scorrevano davanti. La sua fuga verso gli Stati Uniti. Le sue esibizioni nei locali del New Jersey, di New Orleans. Le sue esibizioni da sassofonista per le strade, tra i musicisti diseredati. Ricordava il suo rientro in Italia, l’aver aperto un ristorante, e dopo qualche mese il locale andato in fiamme. Ricordava le nottate trascorse attorno ad un tavolo da poker. Ricordava le liti con sua moglie. Ricordava i suoi figli quando erano bambini. Ricordava uno per uno i volti dei creditori.
Ma Mimmo, non era il solo a recarsi ogni giorno in quel cimitero. Aveva notato che vi era anche una ragazza, la quale anch’essa trascorreva molto tempo dinanzi una lapide, però a differenza di Mimmo, la ragazza portava con se sempre dei fiori freschi. Entrambi, sia Mimmo che le ragazza, da qualche tempo si erano notati. Restavano ognuno a fissare una lapide, a qualche metro di distanza l’uno dall’altra: in quiete, in solitudine, e qualche volta si scambiavano uno sguardo silenzio.
Al termine della sua visita, Mimmo si recava nel bar che restava ad un centinaio di metri di distanza dall’ingresso del cimitero. Il barista, appena lo vedeva entrare gli preparava un caffè corretto con sambuca. Ma fu in una giornata di metà maggio, quando in quel bar entrò la ragazza che Mimmo vedeva quotidianamente nel cimitero. Lei entrò con lentezza, e con un sorriso di complicità, si avvicinò al bancone e ordinò una birra. Si voltò verso il tavolino dove stava seduto Mimmo col suo caffè. Lo guardò. Prese la bottiglia di birra in mano e si avvicinò a Mimmo, senza dare nemmeno il tempo al barista di porgerle un bicchiere dove poter versare la birra. Senza dire nulla prese una sedia e si sedette davanti a Mimmo, il quale la guardò e accennò un sorriso. Lei aveva circa trent’anni, capelli scuri, occhi chiari, fisico asciutto, forme pronunciate e seni burrosi. Indossava delle scarpe nere a decolté, con un tacco molto alto.  Entrambi restarono in silenzio per qualche minuto, poi dopo aver bevuto un sorso di birra, lei disse:
‐ Chi vai a trovare ogni giorno?
Mimmo restò per qualche secondo in silenzio, e continuando a guardarla negli occhi rispose:
‐ mio figlio!
‐ di cosa è morto?
‐ leucemia.
Si chiamava Luisa. E ogni giorno andava a trovare sua madre, morta di cancro da qualche anno. Parlarono per circa un’ora. Ma soprattutto fu lei a parlare. Raccontò di sua madre, disse che il padre risiedeva da diversi anni in Germania, lavorava come operaio in una fabbrica d’alluminio. Dopo la morte della madre, si era risposato con una donna siciliana di molti anni più giovane. Luisa disse di avere una figlia, però che vedeva di rado, dopo il divorzio con suo marito, avevano dato l’affidamento della bambina a lui:
‐ Pensano che io non sia responsabile, visto che in passato sono stata in una comunità di recupero. Mio marito, anzi il mio ex marito è uno stronzo!
Viveva in un piccolo appartamento, con suo fratello handicappato, il quale aveva trent’anni:
‐ Sai non è un menomato fisico, ma purtroppo non parla, non ride, e spesso gli vengono attacchi epilettici.
‐ Come vi mantenete tu e tuo fratello?
‐ Mio fratello prende una pensione d’invalidità mentale, poi io di rado faccio qualche lavoretto. E tu cosa fai?
‐ Io sono un cabarettista!
‐ Un che? ‐ disse con aria ironica
‐ Un cabarettista, un comico.
‐ Tu saresti un comico? Tu? Ma da quello che vedo ogni giorno, resti dinanzi quella lapide e non fai altro che restare in silenzio. Mi sei apparso come una persona triste, non come un comico.‐
Mimmo sorrise. Poi chiese a Luisa se avesse gradito un’altra birra, lei accettò, ordinarono due birre. E dopo averle offerto la birra. La invitò a vedere il suo spettacolo nel locale, e le disse che avrebbe potuto portare anche il fratello. Lei accettò. 

L’appuntamento era alle nove nel locale. Lei arrivò con venti minuti di ritardo. Mimmo quando la vide le andò incontro. Luisa indossava una minigonna nera e un paio di scarpe laccate rosse. In sua compagnia vi era il fratello: il ragazzo dall’alta stazza, restava a testa bassa e in pieno silenzio. Mimmo fece accomodare Luisa e suo fratello ad un tavolo appositamente riservato per loro. Il locale restava colmo di gente. Mimmo salì sul palchetto posto al centro del locale, accompagnato dai suoi musicisti e iniziò il suo show. Luisa guardava Mimmo in maniera sbalordita. Quell’uomo salito sul palco, che indossava un capello a cilindro nero, non era lo stesso uomo che vedeva ogni giorno al cimitero: sprizzava ironia e allegria da ogni poro. La gente rideva incessantemente alle battute di Mimmo e anche Luisa non riusciva a contenersi. Mimmo pronunciava battute di ogni genere dalle più piccanti, alle battute più sottili e sarcastiche, fino a quelle più demenziali. E quando iniziò a suonare il sax e il contrabbasso, accompagnato dalla sua band, le persone presenti in sala, non resistettero e iniziarono a ballare. Luisa notò un cambiamento anche in suo fratello, il quale alzò la testa e guardando verso la band accennava qualche sorriso. Dopo lo spettacolo, molte persone si avvicinarono a Mimmo complimentandosi dello spettacolo, e dicendogli che era la persona più simpatica al mondo.
Si sedette al tavolo con Luisa, e fece un occhiolino a suo fratello. Il quale ricambiò la cortesia. Luisa guardò Mimmo e ridendo l’abbracciò. Bevvero qualche birra. Entrambi non apparivano quelle due figure solitarie che ogni giorno s’incontravano in un cimitero. Mimmo era più ironico che mai, e lei veniva contagiata e trascinata da quell’allegria. Ma per un attimo Luisa ritornò seria e disse:
‐ Stasera ci stai facendo trascorrere una serata stupenda, a pensare che poi dobbiamo rientrare nel nostro appartamento! Possiamo venire a dormire da te stanotte?‐
Mimmo ritornò per un attimo serio, e poi rispose:
‐ Certamente!‐
Dopo quella risposta a Luisa ritornò il sorriso. Continuarono a bere qualche altro cocktail. Quando il locale si sgombrò, andarono a casa di Mimmo. Luisa aveva fatto sdraiare suo fratello sul letto disfatto di Mimmo. Lo strinse a se per qualche minuto, fin quando lui non si addormentò. Assicuratasi che suo fratello dormisse in tranquillità, accostò la porta della camera e andò in soggiorno. Mimmo restava seduto sul divano rosso, guardò per qualche istante Luisa negli occhi. Lei si tolse le scarpe e si sdraiò sul divano, appoggiando la testa sul petto di lui. Mimmo avvertiva un senso d’imbarazzo, forse timore, una sensazione che non provava da anni. Lei con gli occhi chiusi disse:
‐ Rilassati!
Mimmo iniziò ad accarezzarle il capo. Sul mobile accanto al divano, restava un posacenere colmo di sigarette e una bottiglia di vodka. Prese la bottiglia e tirò giù qualche sorso. Luisa continuava a stare distesa. Alzò il capo e prese la bottiglia dalle mani di Mimmo, bevve qualche goccio. Si guardarono intensamente negli occhi, fin quando lei non fece cadere la bottiglia a terra, e scoppiò in un atmosferico pianto. Le sue lacrime scorrevano via come birra slavata. Teneva stretto a se Mimmo, e lui stringeva lei con lo sguardo fisso nel vuoto della stanza. La notte saliva come febbre inarrestabile. Persi in un abbraccio notturno, in una notte di desiderio: voglia irrefrenabile di voler gridare nel silenzio, di piangere nella sobrietà, notte di malessere: ricordo, amarezza, rimpianto: ubriaca commozione del passato, di quell’esistenza andata via, senza nessun avvertimento, senza nessun preavviso. Con gli occhi colmi di lacrime, guardò Mimmo negli occhi e prendendolo per la mano lo tirò al centro della stanza. Lei restava scalza sul pavimento freddo, abbracciata a lui: a quel pagliaccio triste, impregnato di risate andate, di spettacoli terminati, di palchi solitari e riflettori spenti. Iniziarono a ballare una musica priva di note, a muoversi nel silenzio, accompagnati dalla melodia delle loro incessanti solitudini. Il mondo restava fuori dalla finestra: tra un tassista ubriaco e un tram insonne. E al centro di quella stanza, tra un poster rock e una sigaretta fumante, un uomo e una donna compivano l’ultimo atto di titanismo attraverso un ballo smarrito, scordato, frusciante. Brindavano a un amore sospeso tra comprensione e rimpianto, tra disagio e purezza.
Si distesero sul divano, e l’uno abbracciato all’altra si addormentarono. E quando la mattina Mimmo si svegliò, per la prima volta dopo tanto tempo e dopo tanti risvegli, non avvertì quel senso di nausea, malessere e intolleranza. Luisa ancora continuava a dormire.   Durante la mattinata riaccompagnò Luisa e suo fratello a casa loro. Si salutarono con un sorriso.
Mimmo quella mattina si recò in un centro commerciale, dove spesso andava a trascorrere i suoi pomeriggi. Nel reparto libri acquistò un ricettario di cucina italiana dal titolo “Il cucchiaio d’argento”. Poi cominciò a passeggiare nel reparto mobili, tenendo le mani dietro la schiena, indossando il suo cappello nero a falde, le sue scarpe di tela bianche, usurate e sporche. Amava osservare le persone mentre scrutavano un prodotto, mentre minuziosamente misuravano le altezze dei tavoli in rovere, cercando di capire se fossero adatti per l’appartamento che avevano acquistato. Sentì discutere la gente d’interessi, assegni, rateizzazione, mutui variabili, e poi pensò…”quei mutui variabili, un po’ come la vita: sbalzi d’umore e d’opinione, palpiti e tachicardia, ipotensione e ipertensione: una grossa presa per il culo!” .
Si sedette su un divano di pelle nera esposto tra i salotti, il divano veniva offerto con un trenta percento di sconto. Aprì il ricettario e lesse qualche ricetta, fin quando non si guardò attorno e dopo essersi assicurato che non c’era nessuno che lo scrutava, si distese sul divano abbracciando il ricettario.
Il suo sonno fu interrotto dopo qualche minuto, da un responsabile della sicurezza che lo invitava ad uscire dal centro commerciale.
Prima di uscire pagò il ricettario con alle spalle la guardia che lo scortava. Restava fuori dal centro commerciale, vagando nel parcheggio alla ricerca della sua vettura. La sera si sarebbe dovuto esibire, pensò che in fondo, il suo mestiere era quello di far ridere gli altri. E guardandosi attorno capì, che forse, il senso di tutto stava in un ricettario e in una risata. 
Ironia e convivialità in un pomeriggio di metà maggio.