L'amore di un dio

Viveva, Yussuf, tra l’invidia degli uomini, la rabbia, per quel privilegio che neppure il più fervente ebbe mai neppure la più vaga fortuna di anelare. Ogni sera, dopo aver reso prospera la vita, non con strumenti divini, ma con semplici attrezzi agricoli, tornava alla verde radura. Qui seduto ascoltava in silenzio il vento che impetuoso soffiava tra i fili d’erba prima che Dio si mostrasse a lui, affac¬ciando l’immenso volto dalle nuvole turbinanti. Parlavano per intere notti. Il dio, paterno e materno allo stesso tempo, lo ascoltava e lo consigliava. Con sentimento autentico si compiaceva o si strug¬geva dei successi e dei fallimenti di colui che aveva fatto breccia in un così inarrivabile cuore. Spesso gli chiedeva della terra, del raccolto e dei pascoli e quel suo figliolo quieto spiegava ed illu¬strava con quella grande dolcezza che tratteneva un essere supremo lontano dalle infinite preghiere che invano lo cercavano altrove. Con estrema benevolenza stava ad ascoltare ciò che già sapeva.

Degli uomini, tuttavia, era grande l’odio. Forti, spinti da quell’oscura particella di caos che, da dono concesso come atto di carità, assumeva la forma della vendetta. Lo presero, un giorno, legandolo stretto ad un albero, e gli chiesero e gli sputarono contro la loro invidia. Perché egli, perché non loro, “perché non IO” ognuno pensava e mentre picchiavano senza senno. Tra il mesto scorrere del sangue, che sugli occhi gli tingeva l’orrore di rosso, Yussuf triste sollevava un occhio ai suoi vio‐lentatori. Capirono, alcuni, da quello sguardo, che ben altra era la cagione di tanto amore, non un’ingiustizia, non una singola predilezione, videro, tra la carne molle di sangue, qualcosa di di¬vino. Cercarono questi di fermare quello scempio ma, per le grida e le bastonate, tornarono pavidi alle loro case ed essi solo ebbero salva l’anima.

Continuarono gli altri ed erano in tredici, col furore umano che bruciava nei loro corpi, mentre Yus‐suf abbandonava la vita. Restarono poi a guardare quello scempio, ognuno riflettendo e giustifi‐cando sé stesso e gli altri, ognuno a modo suo.

Poi venne sera.

Dio s’affacciò, ancora una volta, sulla radura, ma i suoi grandi occhi non trovarono il frutto di tanto amore. Invano lo chiamò con la voce tremante d’una madre ed il tono autoritario d’un padre, il ri‐chiamo echeggiò per le valli e nel cuore degli uomini, ma tutto tacque.

Passarono ore umane prima che la somma entità si desse conto dell’accaduto. Sceso in terra vide coi suoi occhi la grande tenerezza di quell’anima docile, orribilmente spezzata, e qui pianse lacrime umane sull’umana terra, sull’erba e sul cadavere di quel suo amore.

L’odio si fece strada nel cuore oramai vuoto e, giacchè non c’era più la purezza di quel piccolo es‐sere a rendere mite il suo spirito, il dio finì col corrompersi.

Non un urlo egli consentì alle bestie, non la consolazione del poter sfogare il proprio dolore in un grido disperato, atti atroci ebbero luogo quella notte, nessuno venne risparmiato. A quelli che di quel tenero fuscello ebbero pietà e capirono fu salva la vita e venne spiegato loro quale fosse il cammino da compiere, poi il dio s’abbandonò alla corrente.

Tra le viscere della terra ribolle ancora il rancore inestinguibile di un demonio che con altri tredici suoi pari trama la distruzione e lo sfacelo di ogni forma d’esistere.

Un manipolo di uomini cammina ancora sulla terra, più numeroso di prima, narrando la tenerezza dell’uomo che aveva conquistato il cuore di un dio, aprendo le menti alla comprensione. Parlano essi anche di quell’essere eterno, di come si smarrì, di come, in procinto della resa, affidò loro il compito di salvare ogni cosa da sé stesso.
“Diffondete l’amore” disse loro, “che in tutti i cuori del mondo alberghi l’anima del mio caro Yus‐suf”, solo allora la mia brama si placherà.