L'incrocio del tempo

«Notte amore, ti bacio e ti stringo forte».

«Si amore, lo sento. Ti sento. A domattina».

Guardo per qualche istante il tasto rosso del mio cellulare, ma non lo spengo. Resto così, immobile, con gli occhi incollati allo schermo, in attesa. Ma di cosa? Forse di un semplice «ti amo» incastrato in un messaggio. O forse, spero che la luce del display lampeggi un’ultima volta, per fondermi ancora, e ancora, nella sua voce.

Questione di attimi, interminabili come stagioni, mi giro nel letto, rifletto, e finalmente digito quel pulsante. È bastato un click, un solo un click, per chiudere il sipario sul giorno, sulle mie sciocche fantasie, e su quel gelo che a volte mi scorre nelle vene. Affido al cuscino il mio collo teso, affondo le braccia nel vuoto, per far scivolare via nel buio ogni incertezza, e serro le palpebre al mondo.

«Sarà una notte di velluto» sussurro fra me e me «e sarà come averti qui, in questa parentesi di ore che divide i sogni dalla realtà». Mi addormento, accartocciata nel mio piumone beige, mani incastrate nei pensieri.

Il tempo scorre, un riflesso d’ambra filtra tra le persiane, e si posa sulle mie guance. Stendo le gambe al mattino, sbadiglio nel mio solito modo strano… un suono più felino che umano, un po’ come la mia espressione assonnata.

«Amore, ma già sei sveglia? Quel tuo dolce miagolio lo riconosco, lo sai. Aspettami, però, non alzarti. Possiamo fare colazione con calma, oggi ci siamo regalati una giornata tutta per noi, ricordi? ».

Ad essere sincera, non ricordo nulla. Ma non importa, questa giornata già la adoro.

«Eccomi! Tutto pronto. Caffè caldo e brioche, o, se preferisci, un bel cappuccino chiaro, proprio come piace a te. Che ne dici? Me la cavo come cameriere?»

«Che sciocco che sei… se te la cavi? Ma scherzi? Sei uno spettacolo. Sei il mio spettacolo! Mi chiedo come abbia fatto finora a svegliarmi senza di te. Recuperiamo, dai, vieni qui e stringimi forte, poi mangiamo».

Ecco. Se potessi fermare la giostra della mia vita, lo farei ora. Ora che ho tutto.

Ora che lui, l’uomo che amo, è con me, nella mia camera, a proteggermi da questo soffitto di cielo che per troppi anni ho odiato con tutta me stessa.

L’ho odiato nelle mie notti sole, assassine delle favole che mi raccontavo per colorarmi le lacrime. L’ho odiato quando nelle ore insonni tendevo le braccia ai suoi chiodi, che senza esitazione si divertivano a trafiggere ogni fantasia. L’ho odiato quando ero sempre io a darmi il buongiorno, a coccolarmi con una tisana calda, a raccontarmi una storia, ad amarmi.

Ma la vita è strana, ti sorprende quando meno te lo aspetti, e ti ritrovi così, come in film, a osservarti finalmente sorridere. Quel mio attendere ed attendere, che qualcosa mutasse, non mi consuma più. Ora, questo soffitto, lo stesso soffitto bianco di sempre, non può trafiggermi con i suoi chiodi, e regala al mio sguardo una miriade di riflessi. Nel soffitto mi nutro del viola, dell’indaco, del rosa e del verde, dipinti sui miei sogni realizzati.

E poi? E poi ci siamo noi, io e lui, per prima volta insieme, con le ossa intrecciate, distesi ad osservarlo.

«Ma non hai fame? Guarda che il cornetto si raffredda».

Si amore, si che ho fame, vorrei dirgli, ma ho fame di vita, di ore, delle ore che ci aspettano.

Una lacrima si posa sulle mie labbra, mordo l’impasto caldo del croissant, con il suo ripieno caldo di miele d’acacia, fermo la corsa di quel cristallo di pianto salato, e sorseggio il caffè denso, lasciandomi tatuare la gola da quel mescolio di gusti che è l’amore. Sono felice.

«Che ne dici di iniziare con una passeggiata soli io o te? » mi sussurra piano all’orecchio.

«Sono mesi che me lo chiedi, e te lo avevo anche promesso, ma non riesco mai ad organizzarmi con il lavoro, e finisco sempre per rimandare. Se sono ancora in tempo, e se ti va…».

«Effettivamente, avevo perso le speranze, però… se sarai così bravo da farti perdonare, potrei anche accettare”. «Sarà indimenticabile, tesoro, vedrai. Fidati».

«Mi sono sempre fidata di te, lo sai. Corro a vestirmi, sarò velocissima».

È vero, di lui mi ero sempre fidata. Ricordo benissimo il giorno in cui uno strano gioco del destino ci fece incontrare. Era inverno, la temperatura gelida mi costringeva a girare per la mia città sequestrata in un caldissimo cappotto rosso, che si intonava perfettamente con il mio naso e le mie guance che puntualmente si tingono d’aurora, ad ogni precipitare della colonnina di mercurio. Credo sia uno dei miei peggior difetti, che quel sedici gennaio, però, segnò la mia vita. Posteggiai l’auto nei pressi della clinica dove era ricoverata una mia amica. Aveva appena partorito e non vedevo l’ora di correre da lei, per abbracciarla e scaldarmi dell’amore che solo la nascita di una mamma sa regalare. Entrai, chiesi di lei, salii al terzo piano, ed era lì.

Erano li, una madre ed un figlio, pelle a pelle, odore ad odore, disegnati da un pennello d’autore, su una tela d’eterno. Respirai magia. La magia di un miracolo.

Restai ad osservarli non so davvero per quanto tempo prima di entrare, quando una vocina dolcissima mi catapultò fuori da quella bolla di pensieri e riflessioni in cui stavo nuotando.

«Perché hai le guance rosse come noi bambini? ».

Mi voltai, e vidi una piccolina vestita di verde che mi guardava innocente.

«Perché anche noi grandi siamo un po’ bambini, e crediamo anche nelle favole sai? Vedi, per esempio, quella donna con il suo bebè? Si chiama favola della vita, ed esiste, giuro!».

La bimba mi sorrise, tenera. Io le sorrisi, e vidi un uomo che la teneva per mano. Era suo padre.

Lo riconobbi subito. Era il lui delle attese, il lui che già viveva in me.

Si, perché mi piace pensare che nel nostro cuore esistano più stanze.

Stanze che arrediamo con le persone che ci sono vicine, con le delusioni, le speranze, le aspettative e gli amori interrotti. Stanze intrise di sapori, ricordi, briciole di esistenza sparse sul pavimento, confuse tra petali di sole, e gelide nevi.

Stanze impolverate. Tutte, tranne una, quella che le persiane del tempo proteggono da luci invadenti.

E in quella stanza esiste da sempre un’unica persona, che sa comprenderci, leggerci nei silenzi, amarci per quello che siamo, per gli errori, per le debolezze. Quella cui non dobbiamo spiegazioni, quella che conosce e riconosce la nostra essenza più pura, perché vive della nostra stessa essenza.

Ecco. Quella stanza, ora, non era più vuota.

L’abitava la luna, riflessa sul soffitto, a sorridermi, ed il suo corpo, steso di fianco, ad amarmi.

«Sono pronta. Andiamo!»

Scendiamo le scale di casa senza sfiorarci. Alle nostre anime non importa, loro sono legate, incastrate. Le mie guance arrossiscono, ancora una volta, come allora, come nel giorno in cui le solitarie attese terminarono l’una nell’altra. La giornata non promette bene, forse pioverà, ma ho il suo tempo, ed è il regalo più bello che potesse donarmi. Il tempo è qualcosa di indelebile, di unico, perché gli attimi non tornano indietro, e non puoi barattarli con altri respiri. E lui, quel giorno, di tempo me ne avrebbe dedicato tanto. Ore e ore insieme, ore ed ore di noi. Mi aveva promesso una sorpresa indimenticabile.

Bè, ci era riuscito. Qualche chilometro e la sua macchina si ferma.«Giunti a destinazione», esclama guardandomi, senza parlare.

«Ma dove siamo? Non capisco».

Scendiamo e la sua mano si poggia sulla mia spalla. Amo quel gesto, mi veste di sogni.

«Ci siamo quasi, ora capirai».Qualche passo ancora, e la via selciata ci mostra una porta. Una porta di quelle antiche, di un rosso antico, di un legno antico e solido. La sua mano la apre, i battiti accelerano, davanti a me… un piccolo salone dove ora si aggirano due corpi muti.

«E’ la nostra casa, piccola ma nostra. Non dici nulla?».

No che non dico nulla.

Un giorno tutto per noi, e poi… e poi un posto tutto nostro. Non posso crederci. Non me ne aveva mai parlato.

E ora? Ora siamo qui, e nel mio stomaco, danzano vortici di sensazioni. Le mie mani tremano. Sono felice.

Sono di nuovo felice, come quando stamane, svegliandomi, l’ho sentito gironzolare in cucina. O forse lo sono ancora di più. Si, credo di si. È la seconda volta che in un solo giorno sento la mia anima vibrare tanto intensamente. Vibrazioni che colano lente, percorrono ogni pensiero, e si posano leggere a terra.

Sono viva.

Non parlo, abbasso le ciglia, cerco la sua mano.

«Stringimi forte».

Due parole in un abbraccio di anime che fonde e confonde i nostri corpi, scivolati l’uno nell’altro, ormai indefiniti, come lacci nel cielo, come sogni nel vento. Mi perdo. Ci perdiamo così, per ore. Ore ed ore trascorse a sfiorarci, a respirarci, a pettinare gocce di umori, che si ricamano in noi, attimo dopo attimo. Ore di silenzi, di aliti ansiosi, di schiene inarcate su un domani che ci chiedeva di esistere. Ore tatuate tra le nostre dita tese e i fianchi curvi dell’amore, che si presenta a noi come non aveva mai osato fare. Un amore che portavamo dentro, muto e fermo, in attesa, anche lui come noi, di essere scovato, riflesso nel tempo. Ore che scioglievano la mia brina nel sangue, lasciando germogliare i semi del poi.

Ore d’amore e di verità che addormentarono sensi e membra, raggomitolati e indifesi, come angeli stanchi per le eterne attese, sul parquet di quella stanza solo nostra.

«Amore», sussurro al lento ritmo delle prime ore dell’alba che bussano timide sul viso, leggere come piume di luce.

Cerco il suo respiro, non l’ho mai sentito accanto al mio risveglio. Voglio bere ogni istante di questo primo giorno nella nostra casa.

Ma un brivido mi scorre sulle gambe gelide. Attorno a me solo silenzio.

«Amore, ci sei?».

Lui non c’è. La nostra casa non c’è.

Sono sola. Sola come sempre, nel mio letto di sempre.

Ma allora? La nostra giornata? La nostra stanza? E noi? Noi dove siamo?

Mille domande si rincorrono, mi muovo tra coperte di lame affilate, che lacerano i sensi.

Un suono metallico, come vetro su fuoco, mi strappa da quel reale, solo immaginato. È il cellulare che suona. Un messaggio, il suo.

«Buongiorno amore, hai fatto dei bei sogni? Ti bacio».

Scrivo di getto un «Si amore, ho sognato di noi, del nostro futuro, che non arriverà mai”, ma non lo invio, non ne ho il coraggio, e partorisco un semplice «Tutto bene, amore. Buon lavoro”.

Resto immobile, ancora una volta con gli occhi incollati allo schermo, in attesa. Nella stessa identica attesa di ieri sera. Era solo un sogno, uno stupido sogno. Ed io, la solita bambina che crede ancora nelle favole.

Meglio alzarsi.

«Dimenticavo, oggi niente lavoro. Sarà una giornata speciale. Solo noi due, e una sorpresa che non immagineresti mai. Passo a prenderti fra un’ora».

Un’emozione esplode densa. Quella sorpresa, io, la conoscevo fin troppo bene. Stavo per vivere il mio sogno. Questa, era la mia realtà, ed il nostro futuro.

Sorrido, e metto nel borsone un plaid… ci avrebbe riscaldati, distesi sul parquet della nostra casa.