L'ultimo viaggio

Il barometro appeso al muro dell’agenzia di pompe funebri Alò, segnava pioggia. Giacinto Nervi, nel suo impeccabile completo scuro di lana foderata, osservava il cielo plumbeo. Se avesse potuto guardarsi dentro, avrebbe visto il medesimo colore.
Una mano si appoggiò delicata sulla sua spalla. Dita affusolate, unghie rosso lucido e ben curate.
‐ Mi dispiace, mio padre è stato ingiusto. ‐ Disse Chiara Alò.
‐ No, non poteva fare altrimenti ‐ ribatté Giacinto ‐ la concorrenza in questo settore è davvero diventata spietata. Era giusto tagliare me piuttosto che uno dei suoi figli.
‐ Non disperare ‐ disse Chiara ‐ secondo me troverai un altro lavoro, vedrai.
‐ Ci conto poco. Ho cinquantaquattro anni ormai, chi mi vorrà più.
‐ E poi, con i pochi contributi che ho versato, la mia pensione mi consentirà di sopravvivere appena. ‐ Disse. ‐ Resta comunque il problema che prima di allora mancano ancora troppi anni.
Giacinto sorrise. ‐ Se mi vedrai con una tazza in mano fuori da un supermercato, sii generosa.
Chiara rise, spostando con la mano la sua frangetta corvina dalla fronte.
‐ Sono uno che non si abbatte, ce la farò. Come sempre.
Una porta si aprì, apparve un ometto stempiato, con  attorno alla bocca e sul mento una barbetta bianca e ispida. Giacinto non ebbe bisogno di girarsi per riconoscere il capo. Sentì il classico puzzo di sigaro da quattro soldi.
‐ Chiara, c’è Masi al telefono. ‐ Disse Alò con voce rauca. ‐ Vieni nell’altro ufficio, Giacinto.
I due si sedettero l’uno di fronte all’altro, Alò decise di occupare una sedia di plastica invece di sedersi sulla sua poltrona di pelle.
‐ Ho un ultimo viaggio da farti fare ‐ diede un tiro al suo sigaro ‐ conosci Donat Perreault?
Nell'aria si era sprigionato un gradevole aroma, Giacinto pensò che il suo capo dovesse aver finalmente cambiato la marca dei suoi orribili sigari.
‐ Quello che correva in Formula Uno negli anni settanta?
‐ Bravo, proprio lui. É morto tre giorni fa.
‐ Ho parlato con il suo legale, il notaio Armonni ‐ disse Alò ‐ il vecchio voleva essere seppellito di fianco alla tomba della moglie, a Ponte Novello.
‐ Daccordo, signor Alò.
‐ Domattina alle otto ti farai trovare fuori dall’obitorio, non ci saranno funzioni religiose, solo un rito abbreviato al cimitero.

La Mercedes Limousine grigio chiaro era parcheggiata di fronte all’entrata dell’obitorio. Sotto il porticato, Giacinto Nervi si riparava da una pioggerella di quelle che non le senti, ma che ti inzuppano fino alle ossa.
Un operatore trasportò la bara su un carrello metallico.
‐ Lo sa chi c’è qui dentro? ‐ Disse l’uomo.
‐ Donat Perreault, l’ex pilota di Formula Uno. ‐ Rispose Giacinto.
‐ Non è stato mai un gran fenomeno, però ha sempre avuto un sacco di soldi. ‐ Osservò l’addetto lisciando il coperchio della bara. ‐ É frassino.
‐ Non c’è nessuno al seguito? ‐ Chiese Giacinto.
‐ Da quel che ho letto sul giornale, pare non avesse più nessuno, tutti morti prima di lui.
Giacinto chiuse il portellone della Mercedes, salutò l’operatore e salì in macchina. Prima di avviare il motore, si scrollò un po’ di pioggia dalle spalle.
Guidò in direzione sud, dove avrebbe trovato l’incrocio per Ponte Novello. Il paesino distava da Lavinia circa trenta chilometri. Giacinto guardò la bara dallo specchio retrovisore interno. ‐ Questo sarà il nostro ultimo viaggio.
L’auto si fermò al rosso del semaforo, Giacinto notò due passanti passare sul marciapiede, entrambi reggevano ombrelli scuri. Il primo uomo, più anziano, si levò la coppola in segno di rispetto verso il morto, l’altro, poco più dietro, si toccò in modo irriverente i testicoli.
‐ C’è uno che si tocca, Donat. ‐ Disse Giacinto.
Al verde, l’auto ripartì. La pioggerella si era fatta più densa, trasformandosi in un vero acquazzone. Giacinto aumentò la velocità dei tergicristalli e evitò le pozzanghere, per non bagnare quei pochi passanti che ancora camminavano sul marciapiede.
‐ Quello della camera mortuaria ha detto che non sei mai stato un gran fenomeno ‐ disse Giacinto che intanto lanciava occhiate allo specchio retrovisore interno ‐ però io ricordo un paio di sorpassi niente male.
‐ Credo fosse il ‘72, a Brands Hatch. L’ultima curva prima della bandiera a scacchi. ‐ Te lo ricordi? Pioggia torrenziale, come adesso.
La cassa si mosse. Giacinto rallentò un poco, continuando a guardare lo specchio retrovisore, stavolta senza parlare.
Pensò che forse la bara era stata caricata male e che si fosse assestata.
‐ Ehi, Don, non giocarmi brutti scherzi, eh? ‐ Disse Giacinto ‐ Ti sei eccitato al ricordo di quel sorpasso a Joey Gunston?
‐ Beh, io ero un suo tifoso, ma non ti disprezzavo mica, sai? ‐ Disse Giacinto, alzando e  muovendo il dito indice.
‐ Anche se quella volta ti ho odiato una cifra ‐ disse ‐ cavolo, ci hai fatto perdere il mondiale a vantaggio di quell’antipatico di Moosley.
‐ Ma non te ne voglio.
‐ Lo sai chi era un tuo grande tifoso? ‐ Disse in preda a una lieve eccitazione. ‐ Mio padre! Lui sì che ti ammirava. Mio zio diceva che tifava per gli scartini. Una volta hanno pure litigato, erano quasi arrivati alle mani.
‐ Fu in occasione del Gran Premio del ‘76 a Interlagos, la prima di campionato ‐ disse ‐ quando tu tamponasti West.
‐ Se ti può far piacere, io diedi man forte a papà.
‐ Oh, spiove.
‐ Comunque, non sarai stato un asso, ma in molti ti invidiavano la moglie. Bellissima donna. Mi pare si chiamasse Helen, vero? Beh, leggerò il nome sulla lapide.
‐ Bionda, alta e con gli occhi azzurri. Anche mia moglie era alta, ma mora e con gli occhi castani.
‐ Mi manca molto. A te manca Helen? ‐ Disse. ‐ Ma adesso vi sarete sicuramente ritrovati.
L’attenzione di Giacinto fu catturata da un rombo, fuori in strada.
‐ Guarda! ‐ Disse infiammandosi. ‐ Una Porsche Carrera Gt. ‐ Diavolo, il mio sogno.
‐ A proposito, se non ricordo male, anche tu avevi una Porsche ai tuoi tempi.
‐ Sì, sì, so anche il tipo: una 911 del ‘73. Rossa.
‐ Le preferisco alle Ferrari, anche se ultimamente hanno tirato fuori la F12 che non è niente male.
La cassa si mosse di nuovo, Giacinto accostò in una piazzetta.
‐ Senti Don, non mi vanno certi tipi di scherzi.
Giacinto scese dall’auto e imprecò, quando le sue Derby di pelle nera affondarono in una pozzanghera che pareva la fossa delle Marianne.
Aprì il portellone e controllò la cassa. Tutto era a posto, non c’era modo che si spostasse, era stata fissata bene. Forse, pensava Giacinto, dentro la bara c’era qualcosa che sbatteva, un ricordo che Perreault aveva voluto con sé. Un pezzo di una delle sue monoposto.
Ritornò al posto di guida e ripartì.
L’auto con la cassa da morto a bordo, transitò su un ponte, sotto di esso scorreva il fiume che divideva Lavinia da Ponte Novello.
‐ Ci siamo quasi, lo vedi l’Alundra, Don? ‐ Continuò ‐ Porta in mare i rifiuti delle fabbriche. Questo succedeva anche ai tuoi tempi, eh?
Il tono di Giacinto si era fatto più oculato, come se percepisse la presenza di qualcun altro dentro l’auto, oltre lui.
Svoltò in una stradina stretta, un cartello bianco indicava il cimitero.
Sulla destra, sfilarono gli abeti della pineta. Sgocciolavano ancora la pioggia scaricata poco prima.
‐ In quella pineta avrò fatto centinaia di picnic con i miei. ‐ Disse Giacinto, indicando il luogo battendo con il dito sul vetro. ‐ Fu nel ‘77, mio padre comprò una tv portatile. Ci guardammo buona parte del Gran Premio di quell’anno, all’ombra dei pini.
‐ Zandvoort Park, 28 agosto del settantasette ‐ disse Giacinto ‐ ti ricordi? Lì vincesti tu.
‐ I maligni parlarono di vittoria fortunosa, l’uscita di pista di Gordon a due giri dalla fine. Lo scontro iniziale tra Evered e Naess.
‐ Non è per leccare, ma quando hai alzato il trofeo, ti ho battuto le mani.
L’auto si avvicinò al Cimitero Monumentale. Si vedevano i quattro imponenti fornici dell’ingresso. Il cielo aveva smesso di piangere, ma il suo umore era ancora grigio.
Un uomo vestito di nero, aspettava sotto uno dei quattro archi.
Giacinto si fermò e fece salire una figura allampanata, del viso glabro e cereo. Si presentò come il custode incaricato di accompagnarlo fino alla fossa.
Nel tragitto verso il luogo di sepoltura, i due non scambiarono una parola, il custode indicava il percorso con cenni della mano.
Un prete li aspettava di fianco a un escavatore. Appena li vide, l’operaio mise in moto il semovente.
Giacinto fermò l’auto vicino alla fossa. Il custode lo aiutò a scaricare la bara e a deporla nella fossa.
Il prete farfugliò qualcosa, poi l’operatore manovrò l’escavatore. In pochi minuti la fossa fu ricolma di terra bagnata. Lo stesso operatore, scese per rifinire il cumulo, spaccando con una vanga le zolle più dure. Infine il custode piantò una lapide provvisoria.
Alla sinistra del nuovo inquilino, c’era una stele funebre di ottima fattura. Giacinto si avvicinò per osservarla da vicino.
«Helen Lyon.» Lesse. «La moglie di Don.»
L’immagine della foto era in bianco e nero, ma si poteva distinguere lo stesso una bellissima donna bionda con gli occhi chiari.
Senza salutare, il custode se ne andò via a piedi, nella direzione opposta del prete, che si  incamminò con l’operaio.
‐ Ciao Don. ‐ Giacinto risalì sull’auto. ‐ Spero di ritrovare l’uscita.
Mentre faceva retromarcia, vide la terra che seppelliva  Donat Perreault tremare per un attimo. Poi notò una leggera foschia liberarsi sopra di essa.
Voleva richiamare il prete e il custode, ma preferì uscire il più presto possibile da quel cimitero.
Durante il ritorno, Giacinto guardò più volte nello specchio retrovisore esterno. Temeva negli scherzi della sua immaginazione, invece  non successe nulla.

La sera, Giacinto Nervi tornò a casa con una pizza e una lattina di Coca‐cola. L’indomani sarebbe andato a iscriversi all’ufficio di collocamento.
Accese la tv e si guardò un pezzo del film Il maledetto United. Non poteva ancora credere di essere disoccupato. Aveva lavorato da Alò per nove anni. Poi ripensò agli strani fatti della giornata e terminò di guardare il film con le luci della sala e della cucina accese.
Lasciò tutto sul tappeto, il cartone con i resti della pizza, la lattina e i tovaglioli appallottolati di carta.
Si lavò i denti e si infilò sotto il piumone. Dopo quindici minuti buoni, spense la luce.
Notò un bagliore proveniente dal corridoio. Aveva dimenticato la luce del bagno accesa, ma era sicuro di averla spenta. Riaccese la luce in camera.
Faticò a infilarsi una pantofola, poi si diresse in bagno. La luce era spenta.
«Mi sono fatto impressionare troppo» pensò «devo... devo pensare a qualcos’altro.»
Tornò sotto le coperte e spense subito la luce, ma non chiuse gli occhi. Il bagliore era sempre là, più intenso di prima.
Guardò l’orario, erano appena le due di notte. Adesso avvertiva la stessa sensazione di quando stava trasportando la bara di Perreault.
Voleva alzarsi, ma qualcosa lo bloccava nel letto. Sentiva le goccioline fredde imperlargli la fronte e bagnargli le ascelle.
Si imponeva di pensare a altro, ma non ci riusciva. Ammise a se stesso di avere paura.
‐ Don... signor Perreault, io non le ho fatto niente, la prego, sono un uomo disoccupato.
Le tende della stanza si mossero, Giacinto sussultò. Non riusciva a abbandonare il letto. C’era una forza sconosciuta che lo incollava al materasso.
Sentì un vento freddo attraversare la stanza, il bagliore nel corridoio aumentava e diminuiva a intermittenza. Sentì dei rumori sinistri in bagno.
‐ La prego signor Perreault, mi lasci in pace, non le ho fatto nulla, la prego.
Iniziò a pregare, non era religioso, ma quando hai veramente paura, una delle prime cose che fai è pregare.
Sentì una voce debole, lontana, gli sembrava di sentirsi chiamare per nome. Si voltò verso lo specchio e nel buio vide un volto riflesso, che lo guardava.
Giacinto urlò.

I raggi del sole filtrarono attraverso le fessure della tapparella. Giacinto era felice che fosse giorno. Ma quello che era successo la notte prima era stato solo frutto di un incubo? Incolpò perfino la pizza.
Alzò l’avvolgibile e aprì la finestra. L’aria fuori era fresca, e si auto‐invitò nella camera da letto di Giacinto.
L’uomo indossò la vestaglia e ebbe di nuovo difficoltà a infilarsi una pantofola. Finalmente si diresse in bagno.
Si tolse la vestaglia e aprì il rubinetto dell’acqua calda, voleva togliersi il sudore con un bel bagno. Quando si specchiò, rabbrividì di terrore.
Sulla specchiera c’erano scritti dei numeri con il rossetto rosso appartenuto a sua moglie.
‐ Che significa? ‐ Si chiese. Sulla sua fronte ricomparvero le perline di sudore freddo. Rivoli di sudorazione gli colavano dalle ascelle giù per i fianchi.
3112475951
‐ Sembra il numero di un cellulare ‐ pensò ‐ ma chi può averlo scritto. Non c’era quando sono rientrato a casa.
Prese  il suo telefonino, aveva le dita che tremavano. Una voce femminile lo avvertiva che il numero era inesistente. Riprovò un paio di volte con lo stesso risultato.
Non sapeva darsi nessuna spiegazione. Si fece una doccia veloce, poi uscì. Aveva una mezza idea di andare alla polizia.
Mentre scendeva le scale sentì un refolo d’aria fredda e la stessa voce flebile della notte prima, che lo chiamava per nome.
La sensazione, questa volta, fu diversa, non ebbe paura. La voce non voleva minacciarlo.

Giacinto Nervi si incamminò nel sentiero ghiaioso del Cimitero Monumentale di Ponte Novello. Arrivato di fronte alle tombe di Helen e Donat, vide che quest’ultima era stata dotata di una lapide in marmo di Carrara. Erano entrambe dotate di ottime finiture, ma nessun fiore le decorava.
Giacinto depose un mazzo di rose rosa sotto la foto di Helen e uno di rose rosse sotto quella di Donat.
‐ Grazie Don, spero di poterti stringere la mano nell’altra vita.
Giacinto uscì dal cimitero e salì sulla sua Porsche Carrera GT color argento.
I numeri scritti sullo specchio erano le date di nascita di Donat e Helen: 31 12 47 e 5 9 51.
Giacinto Nervi le giocò al SuperEnalotto e vinse.