La nonna (incipit di Carlo Fruttero)

Una parola, una sola parola che non doveva uscire, che non dovevo gridare in quella notte terribile. Tagliarmi la lingua, ho pensato e detto mille volte. E lo pensano tutti, lo so benissimo, anche se mi abbracciano con le lacrime agli occhi. La vecchia scema. La vecchia pettegola. Altro che fare venti giri di jogging nel parco (va bè  è un fazzoletto) e mandar giù quei litri di misture, carote e arance e pompelmo e sedano, che ne so. Tieniti in forma, cretina. Stai pronta a scattare con la maledetta linguaccia. Ma io non lo facevo per me, giuro. O soltanto nei primi tempi, perché a nessuna donna, ragazzina o nonna che sia, fa piacere avere la pancia che balla lì davanti e le cosce che scoppiano. Stavo attenta alla linea anch’io, mica nego. Ma il vero scopo era più importante, più serio. Il vero scopo era il bambino, un tesoro, una gioia dal primo momento che è venuto al mondo e l’ho alzato con una mano sola, mi stava tutto in una mano sola, mi stava tutto in una mano come un passerotto venuto giù dal cielo. Il mio nipotino, il mio cuccioletto. E in undici anni non c’è stato si può dire giorno che non abbia passato con lui, a correre a quattro zampe in corridoio, a spingerlo nella carrozzina, insegnargli a camminare, cambiargli i pannolini,
imboccarlo con le minestrine, soffiargli il naso…Dio, Dio, non ci posso pensare, perché l’ho perduto, perché ho gridato? Non ci sono scuse, non me lo perdonerò mai, mia figlia mi guarda come un’assassina, quasi non ci parliamo più. Perché dopo tutto il casino del divorzio lei era venuta a stare da me con il bambino, io avevo posto, sono vedova e ho una villetta a schiera vicino al parco Silvestro Lega, col mutuo quasi finito e una stanzetta per lui bella comoda, coi suoi manifesti di Spiderman ai muri e il computer, e per la tv ci mettevamo in soggiorno lui e io sul divanetto vera pelle, tutte le sere era una festa, Coca senza caffeina, biscotti che facevo io o sennò un bel panino, un trancio di pizza. Mia figlia lavora in comune, e certe sere usciva per gli straordinari o magari con le amiche, e io ero felice e contenta di starmene sola con il mio ninetto. Cresceva, veniva su bene, s’ interessava a tante novità, iPod, play‐station, e io non volevo restare indietro, volevo essere sempre all’altezza, imparare anch’io,  giocare con lui, che non mi vedesse come una vecchia rimbambita, col mal di schiena eccetera. Ecco perché andavo a correre regolarmente nel parco, da sola o con lui, se lui non era dai suoi amici (ma sempre ben controllato). Non ci posso pensare a quella sua tutina rossa che gli avevo comprato io, e lui davanti e io dietro correvamo per i vialetti del parco che da mesi è tutto un cantiere, ci fanno passare non so che tubi per il riscaldamento e ci sono almeno dieci operai che scavano, due neri nerissimi e poi dei ragazzi del paese, ci conosciamo tutti, brave famiglie di lavoratori, e passando ci scambiavamo un saluto addirittura. Bel saluto, bella confidenza. Poi tornavamo dentro a guardare gli indovinelli in tv, cosa vuol dire “ossimoro”, è un piccolo rettile o un pezzo di intestino o uno scudo? Certe cose non le sapevo o non le sapeva lui, ma se gli veniva la capitale del Sudan la gridava subito, o il nome del moschettiere (Portos!) o il fiume più lungo d’Europa (Danubio! Danubio?) e anch’io se vedevo che lui non sapeva, gridavo la risposta esatta, il nome del primo astronauta nello spazio (Gagarin!) il nome del re dei Mongoli (Gengis Khan!). Non lo dico per giustificarmi ma mi è venuto su naturalmente, quel grido. Solo che non era un gioco, era sera, pioveva, buio pesto, e quei due che sono entrati con la faccia coperta e il coltello in mano, e noi due lì sul divano più stupiti che spaventati. I soldi! I soldi! Non erano albanesi, non erano neri, due italiani, forse giovani, uno più alto e grosso, l’altro un mingherlino. E quello grosso, mentre buttava per aria i cassetti e bestemmiava e gridava i soldi, i soldi, be’, non so come, così all’improvviso, tutto d’un colpo, gli è scivolata giù dalla faccia la sciarpa rossoblu e io, non ci posso pensare, non me lo posso perdonare, io d’istinto ho urlato la parola che non doveva uscire, il Signore mi secchi la lingua. E il coltello si è alzato.
 

Maledetto. Maledetto. Non me l’aspettavo, eppure sentivo che c’era qualcosa…
qualcosa che dovevo  capire. Non l’ho capito fino all’ultimo istante. Ho urlato e mi sono buttata, ma lui è stato più svelto di me. Voleva colpire me, ne sono sicura, anche se non lo dirò mai a nessuno: mi odierebbero ancora di più. Cosa potrei spiegare a mia figlia? Lui si è gettato tra noi con quel coltello e mi ha preso solo di lato, nella spalla. Poi ha calato un secondo colpo prima che io lo prevedessi e potessi fare un’altra mossa. Questa volta fu il mio ninetto a spostarsi, mentre un altro urlo mi si strozzava in gola. Ed è stata la fine per lui.
C’era sangue, tanto sangue dappertutto. Il compagno lo tirava per il lembo della giacca. ‐Via, via, non c’è tempo, sei ammattito‐. Un trepestio confuso e affannato, un ansimare roco tra imprecazioni e bestemmie e poi il portone sbattuto con violenza. Mentre io urlavo e urlavo atterrita, senza riuscire a muovermi. Vedevo il sangue e non capivo da dove veniva. Io ero appena ferita, perché tanto sangue? Poi l’ho visto, il mio ninetto, in un lago rosso che si allargava e inzuppava il divano, lo sguardo smarrito e appannato. Non parlava, solo un gemito sottile e continuo che diventava sempre più flebile. Ho cercato di alzarmi subito, lo giuro, ma le forze mi sono mancate mentre sentivo ancora me stessa urlare e insieme le voci del televisore che continuava a trasmettere non so quale pubblicità. Sono ricaduta indietro come avessi le ginocchia spezzate. Poi è arrivata gente. Altro chiasso, tanta luce, altre urla, telefonate,  voci, la sirena dell’autoambulanza o della polizia, non lo so. Poi mi sono vista il pavimento addosso, contro la faccia,  accompagnato da suoni sordi che non riuscivo ad afferrare,  la luce si è appiattita in un grigiore confuso e finalmente il buio. Ho perso i sensi.
Dov’è il mio piccolo? Fatemelo vedere. Gridavo nella stanza dell’ospedale fra gente che neanche mi stava ad ascoltare. Mia figlia è comparsa un attimo sulla porta, mi ha guardato ed è sparita.
Poi le domande. ‐Perché la porta di casa era aperta?‐ Era aperta? Ma io l’avevo chiusa. ‐Come hanno fatto ad entrare? Non li avete sentiti? Li avete riconosciuti?
O Dio, come facevo a rispondere, come facevo a dire chi avevo visto e perché erano entrati. E’ colpa mia, è tutta colpa mia. Mi ammazzerei se servisse a qualcosa. Il mio piccolo amore ferito a morte per causa mia. Vorrei sbattere la testa contro un muro, strapparmi la pelle della faccia con le unghie, ma mi hanno riempito di sedativi e sono riuscita solo a fare uno stupido inutile lamento.
‐Aveva dimenticato le chiavi nella porta, vero?‐ Certo, pezzo di cretina rimbambita,  doveva essere così. Dimenticavo sempre tutto dappertutto, anche se facevo la bravona ancora in grado di gestire ogni cosa senza difficoltà. (Ma no. Sapevo che non era così).
‐Ma perché non ha gridato subito, appena entrati? Oppure solo dopo, appena usciti? Perché proprio  a un certo punto della rapina?‐ Oddio, ma come faccio a dirglielo.
‐Lei lo ha visto. Perché allora, e solo allora ha gridato? E’ una persona che conosce.‐ No, non sapevo chi era. Non lo conoscevo. Non so, mi era sembrato a un tratto così spaventoso, con gli occhi torvi, l’espressione feroce…(Quante bugie, che pasticcio orribile. Certo che lo conoscevo,  il maledetto).
‐E come facevano a sapere dov’erano i soldi?‐  Già, come facevano a saperlo? Quei quattro soldi che tenevo nelle buste, con le voci delle spese divise settimana per settimana e poi la bustina dove ogni mese risparmiavo qualcosa per fare un regalino al mio ometto, il regalino della nonna, nascosti in un cassetto della cucina tra le cianfrusaglie. I soldi della liquidazione sul libretto in banca (che non c’erano più da un pezzo).  Ma cosa volevano da me questi maledetti seccatori che mi facevano tutte queste domande? Non era con  loro che volevo parlare. Del mio tesoro, il mio piccolo compagno inseparabile, che da quando era nato mi aveva riempito il cuore di tenerezza infinita, aveva occupato le mie ore più belle, aveva dato un senso alla mia vita e al mio tempo. Di lui volevo parlare. ‐Fatemi parlare con lui accidenti, ditemi qualcosa‐
Quando me l’hanno detto ho urlato. Non più l’urlo di spavento, forsennato, dei momenti di paura appena vissuti. Ma un urlo che mi strappava le viscere, che mi si strozzava in gola togliendomi il respiro. No. No. Non ci credevo. Chiedevo di dirmi che non era vero. Ho chiamato mia figlia. Ho chiamato i parenti, i vicini. Ho ripetuto che non era vero, che c’era uno sbaglio.
Adesso sono ridotta al silenzio. La tacita condanna di tutti mi pesa come un macigno. E’ stata colpa mia, lo pensano tutti. Ho lasciato le chiavi nella porta. Prima, la corsa nel parco con addosso il braccialetto d’oro e l’anello ereditato dalla nonna, così tutti l’hanno visto e ci hanno fatto un pensierino. Il volume alto del televisore e la foga con cui m’impegnavo a giocare rispondendo ai quiz, per far vedere che ero brava. Così non li ho sentiti entrare, vecchia sorda incosciente, invece di preoccuparmi che tutto fosse a posto e non ci fossero pericoli. E poi l’urlo, il grido di aiuto che ho cacciato attirando la loro attenzione, mentre potevamo tacere rincantucciati tra i cuscini del divano.
Così pensano.
Eppure le cose non sono andate così. Io lo so ma non posso dirlo. Sarebbe peggio. Mi hanno chiesto e richiesto se li avevo riconosciuti,  almeno quello a cui era caduta la sciarpa dal viso (ma perché mi son fatta scappare questo particolare? Anche qui non ho saputo star zitta, scema che non sono altro). Ho detto di no, che forse mi pareva ma non ero sicura, che mi confondevo, che c’era la luce falsa del televisore e le ombre della stanza e il rumore del programma con le voci che gridavano dallo schermo, e la paura che mi paralizzava.
Però io l’avevo riconosciuto. Questa è la mia punizione, la mia tortura. Ma più di me a pagare è mia figlia e non potrò mai perdonarmelo. E soprattutto, soprattutto, il mio adorato piccolo uomo che ormai non c’è più. Non diventerà grande, non frequenterà le migliori scuole come noi sognavamo, non farà sport, non conoscerà l’amore, il mondo e la vita… o Dio basta. Fammi morire.
Se ripenso a quell’anno disgraziato in cui la mia testa prese a frullare come una trottola, facendomi fare un mucchio di sciocchezze, ancora adesso non posso capacitarmi. Povera, patetica, stagionata ultracinquantenne, che sotto sotto si credeva ancora la bella ragazza di una volta e non voleva accettare il passare degli anni. Ero vedova e sola. Appena andata in pensione. Dopo gli anni del grande dolore e del lutto, il periodo del lavoro intenso, finalmente il meritato riposo. Avrei letto, viaggiato (nei limiti delle mie possibilità, certo, dopotutto avevo accantonato una discreta liquidazione), mi sarei goduta il mio tempo e la mia libertà, anche se non riuscivo a togliermi di dosso quella cappa pesante di malinconia. Mi accompagnava dai giorni della malattia e della morte del mio Carlo. Mia figlia per conto suo, a vivere la sua vita d’inferno, fra gli scontri continui e le fughe rabbiose da quel marito che aveva voluto sposare a tutti i costi. Mi ero presa un cane, unica consolazione, una piccola dolce compagnia. Con Toby andavo a spasso nel parco, mi sedevo sulle panchine mentre lui si ruzzolava sull’erba o mi portava la pallina per farsela tirare. Tanta tenerezza,  calore animale e qualcosa di morbido e vivo da stringere tra le braccia e da carezzare, da proteggere, in cambio di una devozione fiduciosa e incondizionata.
Non mi bastava. Cosa andavo cercando? Povera sciocca che non voleva sentirsi già vecchia, non voleva vivere come una vecchia. O forse è stato un gioco folle della mia povera testa, in cerca di qualche forma di felicità. E un giorno, proprio al parco, l’ho incontrata la mia felicità. Non fosse mai successo. Quante volte mi sono data della pazza, mi sono fatta pena, mi sono vista con gli occhi degli altri, se avessero saputo,  e mi sono commiserata. Per questo non ho mai detto niente a nessuno. Anche lui portava a spasso il cane. Era alto e forte. Non giovane ma ancora col portamento vigoroso e giovanile di un ragazzo con le tempie grigie. Forse aveva la mia età, forse più (forse meno?), ma non è stato quello a colpirmi. Mi guardava con occhi attenti e ammirati, mi parlava con voce calda e gentile. O accidenti, che tipo interessante. Fu così che cominciò. Al parco giorno dopo giorno. I primi saluti, le prime conversazioni, i cani che giocavano, i suoi occhi che mi guardavano, i capelli grigi che brillavano quando piegava la testa. Ogni giorno mi vestivo meglio, mi truccavo con più cura. E’ stata come una corsa in discesa: non mi sono neanche accorta che stava succedendo e quando me ne sono accorta era troppo tardi. Quel giorno sono tornata a casa euforica,  con un’esaltazione gioiosa che non riuscivo a spiegarmi. Poi all’improvviso ho capito. Ero innamorata! Eppure mi aveva raccontato subito di avere famiglia: una moglie, due figli, un nipote in arrivo. Ma non ci pensavo nemmeno. La vera scoperta era ritrovare in me l’entusiasmo, l’interesse, la voglia di vivere, di aspettare il giorno seguente per rivederlo. Mi sentivo rinata e giovane e ammirata. O no? Era solo un’illusione la mia? Forse a lui non era capitata la stessa cosa? Forse ero solo io a farneticare?
E’ stato così che sono  cominciate la mia felicità e la mia tortura. La mia discesa per una strada che mi avrebbe portato in questo inferno.
Poi sono cominciati incontri di altro genere, appena lui si è reso conto del mio stato d’animo. Non si è lasciato sfuggire l’occasione, certo. Ore di passione, non lo nego, inizialmente esaltanti ma miste a una crescente vergogna. Non voglio parlarne. Mi faccio pena. Alla mia età, povera stupida illusa, rimbambita da un amore fuori stagione, da un uomo che mi sembrava un gigante ed era solo un piccolo misero imbroglione che approfittava della mia dabbenaggine. Avevo già speso un terzo della mia liquidazione in vestiti sempre nuovi, biancheria di lusso per sembrargli seducente, trucchi e creme di bellezza. Perfino trattamenti in un centro benessere che dovevano rifarmi nuova. Che pena. Chissà quante altre donne della mia età attraversavano questa fase patetica,  in cui si vuole tenere stretta la propria giovinezza. Avevo pagato cenette in localini di lusso e alcuni fine settimana sul lago. Lui diceva che non poteva sottrarre soldi alla famiglia e che sua moglie controllava tutti i conti e si faceva passare tutta la sua pensione. Poi sono cominciate le giocate al lotto, le scommesse, i prestiti per piccoli affari. E via di seguito.
E’ stato il mio frugoletto a salvarmi e a ridarmi il giusto senso delle cose.
Quando ho saputo che mia figlia era incinta,  mi sono svegliata tutta ad un tratto. Nonna. Sarei diventata nonna. Un trauma per la mia scempiaggine, per la mia nostalgia di giovinezza, poi la gioia. Una gioia immensa. Avevo ritrovato finalmente un ruolo,  il vero ruolo che mi spettava. E da quando il piccolino è arrivato, non c’è stato nient’altro per me. Solo lui contava, solo lui era il mio grande amore. Quando poi sono venuti ad abitare con me, dopo il divorzio di mia figlia,  sono stata davvero felice.
E lui? Il grande seduttore, che aveva trovato un’amante compiacente e credulona con cui passare delle belle ore, la sua piccola comoda banca da spolpare: l’ho congedato con garbo ma con decisione. Ci è rimasto male ma non ne ho voluto più sapere.
Ho troncato ogni cosa e non ci ho pensato più. Al diavolo lui e le sue belle parole. Che sparisse dalla terra, con tutti  i suoi sguardi allusivi e pieni di promesse, con tutte le nostre ore di passione ampiamente ripagate: sul lastrico mi aveva ridotto, con le sue richieste di soldi. Mi aveva reso ridicola ai miei stessi occhi.
Quante volte, in tutti quegli anni, aveva tentato di avvicinarmi e quante volte io gli avevo allungato delle piccole somme, mentre mi diceva di avere delle difficoltà. In fondo ero un po’ rosa dal rimorso e dispiaciuta per lui. Dopotutto mi aveva regalato momenti di affetto e aveva addolcito la mia solitudine. Ma ultimamente no, lo avevo mandato a quel paese. Era ora che mi lasciasse in pace.
Ecco, così è stato. Una vecchia balorda che aveva perso la bussola per un anno e poi era rinsavita.
Ma a che prezzo. Chi ci pensava che non mi aveva mai ridato le chiavi di casa? E che sapeva dove tenevo i soldi? Ma ormai era passato tanto tempo. Tanti anni pieni di amore per il mio bel nipotino che cresceva ogni giorno più forte e più intelligente e pieno di voglia di vivere.
All’inferno deve andarsene quell’assassino. Lo so, mi aveva rivisto quel giorno al parco,  mentre correvo col bambino, e lui era lì confuso tra gli operai che lavoravano alle tubature,  intento a chiacchierare con loro, il maledetto, a raccontare chissà quali frottole. Era successo altre volte. Uno scambio di sguardi piuttosto freddo e via, ognuno per la sua strada.
Ed era lì quella sera, quando gli è caduta la sciarpa dal viso. E’ stato il suo nome che ho gridato, sconvolta dall’orrore e dall’incredulità. Ed è questo il mio immenso, atroce,  inconfessabile peccato.