La sfida

Nella foschia della sala la luce cadeva bassa. Era portata sui tappeti verdi attraverso neon incastrati in congegni oblunghi e orientabili.
Salvo tastò le sponde del biliardo con aria da saputello e lamentò che non fossero sufficientemente riscaldate.
Con un movimento secco della mano, spinsi una biglia e la feci carambolare sul tappeto verde.
– Cazzate. A me sembra che la palla scorra bene.
Salvo mi fissò storto. – Ti credi invincibile in questo gioco, vero? Mi sa che stasera uscirai umiliato da qui.
Il mio amico cominciava a starmi sulle palle, con le sue battute fuori luogo. Non era il tipo che accettava una sconfitta, e mi pentii di aver accettato la sfida che mi aveva lanciato su Facebook coinvolgendo per giunta anche i miei contatti.
– Umiliato dici? Forse stanotte hai fatto un sogno talmente bello che non hai ancora avuto il coraggio di interromperlo. Ti rivelo un segreto: sappi che in questo momento sei solo un campione del nulla.
Sistemate le tre biglie sul tappeto verde, Salvo si piegò con la stecca sul biliardo tenendo la parte superiore del braccio parallela al pavimento, oscillando con l’avambraccio avanti e indietro mentre la mano teneva impugnata la stecca che, dalla parte della punta, poggiava sul ponte formato dall’altra mano.
Ero talmente abituato al gioco della Carambola che dalla posizione della stecca e dal suo immaginario prolungamento intuivo che colpo ne sarebbe scaturito. Trovai quindi alquanto strano che le operazioni di brandeggio nel complesso fossero consone per un’uscita a giro.
Il colpo fu infatti tirato con forza media, imprimendo sulla sfera battente l’effetto a sinistra e colpendo a mezza palla la biglia avversaria. Rimbalzando sulla sponda lunga di sinistra, la sfera battente scivolò carica di effetto verso la traversina in alto, quindi rimbalzò sull’altra sponda lunga e, di rimando sulla traversina in basso risalì colpendo la biglia rossa.
Carambola!
Le cose non mi quadrarono. Ragionai. Quello era stato un colpo da giocatore incallito. E Salvo aveva imparato a giocare a Carambola soltanto da qualche mese, io stesso in quel periodo faticavo a insegnarglielo. Era per altro improbabile che il tiro potesse essere stato frutto di un colpo di fortuna, perché tutto era stato preparato per ottenere quel risultato. La fortuna entra per altre vie in questo gioco. Ed era inoltre escluso che Salvo avesse potuto far finta con me di non saper giocare: la postura e i gesti di un giocatore professionista così come quelli di un dilettante non possono scrollarsi di dosso a comando, e i miei occhi esperti avrebbero colto l’inganno.
Salvo alzò lo sguardo su di me. – Stai trascurando un fatto, fratello. Anche se il tuo stile raffinatissimo può coprire infinite combinazioni nel reiterarsi dei colpi messi a segno, guarda che nessuno, nemmeno tu, può pararsi il culo dall’imprevisto.
Fu come se, avendo letto i miei pensieri, Salvo avesse voluto rispondermi per le rime. E nonostante mi rendevo conto che tutto ciò non aveva un briciolo di senso, fui comunque pervaso da un vago timore dell’ignoto.
Fissai la disposizione assunta dalle biglie dopo il colpo. Per un principiante peggio non poteva capitare: le due palle si erano sistemate lungo una perfetta verticale rispetto alla palla battente.
Da come Salvo posizionò la punta della stecca contro la biglia battente, appena sopra la metà superiore della sfera, capii che stava tentando il colpo “a scorrere’, l’unico modo possibile, in quella situazione, di sperare di poter fare carambola.
Ma come poteva conoscere quel colpo se io non glielo avevo ancora insegnato?
Salvo scoccò il tiro con decisione. Un colpo in testa e la palla battente partì rotolando e senza slittare per un certo tratto, colpì quindi la palla avversaria che a sua volta, colpendo la biglia rossa, si disallineò da essa. Da tergo, intanto, la palla battente proseguiva la sua corsa lungo la verticale originaria fino a raggiungere la biglia rossa colpendola.
Un colpo fantastico.
Per circa mezz’ora Salvo passò da una carambola all’altra, riuscendo a risolvere le più complicate combinazioni. Ogni tanto si fermava per mettere con cura il gesso sulla punta, buttarsi del borotalco sulle mani che poi strofinava attorno alla stecca. Giunto a cinquanta carambole senza fallire un colpo, allungò la stecca fra i cubetti segnapunti in alto e, collocando la punta su quello contrassegnato ‘50’, fece scorrere tutti i cubetti verso l’altro estremo determinando una botta secca. Una botta che mi arrivò come un pugno in faccia. Mi aveva stracciato, e senza che io avessi potuto tirare un sol colpo.
Buttai la stecca sul tappeto verde, infilai veloce il soprabito e uscii incazzato nero dalla sala. Umiliato.

Fuori faceva un freddo del diavolo. Mentre mi stringevo il bavero, percorsi con lo sguardo il viale davanti a me. In lontananza, una strana figura andava materializzandosi dalla gobba della strada, fra le spoglie sagome dei tigli ai lati illuminati a sbaffo da ricurvi lampioni. Indossava un cappellaccio a tese larghe e cupola alta.
Era una persona abbigliata in modo assurdo. Avvicinandomi, mi accorsi che di sotto il cappello e tra il bavero rialzato del mantello intravidi il viso, solcato e smunto, improntato da uno sguardo ostile. Aveva le mani vizze, a zampe d’uccello, e i dorsi rugosi simile ad alite; gli arti inferiori, terminanti con zoccoli fessi, puntavano dritti al suolo ma incredibilmente non lo calpestavano. Trotterellava librandosi a un palmo da terra, ed uguale ne risuonava uno scalpiccio cadenzato. Il nero mantello gli scivolava ampio e gelatinoso lungo il corpo ed era affibbiato al collo da un laccio di cuoio che serrava i riporti rossi di stoffa diversa del bavero. Questo a sua volta si racchiudeva ostentando due orli verticali e obliqui che sparavano in alto e a punta e in direzioni opposte. E non era finita qui. L’essere lugubre non emetteva la benché minima ombra sul terreno.
Mi sentii raggelare il sangue. Quella specie di sorda paura in cui si era conchiusa in quell’istante la mia anima trovò nel pensiero di Dio una protezione, una Chiesa. Sentii il desiderio di pregare, lo feci ripetendo mentalmente le poche preghiere che conoscevo.
Un puzzo nauseabondo si sciolse nell’aria, sentii una ripulsa fisica e l’orrore riversarsi su di me in ondate assordanti. Comincia a correre all’impazzata, quando una voce che mi sembrò giungere da infinite lontananze artigliò il vento e nelle mie orecchie portò la frase: – L’anima del tuo amico Salvo ormai mi appartiene!