La vendicatrice di salmoni

Il Signor Persifal mi aspettava sempre sulla porta di casa, io uscivo e lui aspettava.
Mi controllava, neanche mi parlava, non aveva di che dirmi, i soldi dell’affitto li prendeva sempre, eppure mi odiava.
Mi cominciò a detestare da quando alla Signora Marisa gli fu rubata la busta della spesa davanti alla porta di casa. Non si seppe mai chi fosse stato, ma lui aveva subito pensato a me. In effetti, l’avevo rubata io, ma questa è un’altra faccenda, lui non aveva prove, non poteva odiarmi così.
Il pomeriggio aveva odore d’estate, una foto scattata di sorpresa, rendendo immobile tutto ciò che si muoveva. Il letto sotto di me mi reggeva le spalle comodamente, non avevo niente da fare, ero un ex impiegato e improbabile scrittore, ma non ci pensavo molto. Avevo solo un’altra birra in frigo e il libro che stavo cercando di finire era ancora molto lungo. L’umidità si attaccava ai muri, non lasciando nessun angolo, soffocandomi ad ogni pagina. M’immaginavo in ogni singola frase, in ogni virgola, fossi stato io a scrivere tutto questo, io Ernest Borodin, la critica impazzirebbe.
Sig. Borodin, Sig. Borodin.
Gli alberi nella mia via stanno su per prepotenza. Ancorati ad un pezzo d’asfalto grigio, osservano la vita senza farne parte. Le case sono tutte uguali, le persone sono tutte uguali, testate clinicamente. Buttano la spazzatura alla stessa ora, cenano alla stessa ora, e alla stessa ora si piazzano davanti al televisore. Si portano nei capelli la polvere della loro esistenza, non facendo niente per levarla. Decisi di uscire, camminavo svelto, cercavo un posto tranquillo dove prendere qualcosa da bere.
Il sole mi seguiva, mi facevo spazio fra la gente senza essere troppo scortese, ero senza dubbio il più grande scrittore di quest’ignobile secolo, ma il bello e che lo sapevo solo io. Mi sforzavo, anche quando sapevo che non mi sarebbe uscita una parola, mi mettevo a sedere davanti alla macchina da scrivere e aspettavo. Talvolta ci stavo delle ore, guardavo il foglio bianco ma non c’era via di scampo, non sarei stato in grado di scrivere neanche la lettera a Babbo Natale. Trovai un Bar aperto, un bar senza pretese, poco illuminato con una piccola insegna della marca di qualche caffè Brasiliano. La porta aveva i campanelli scaccia sfortuna, riuscì a sentire i tintinnii anche quando avevo preso posto nel tavolo in fondo vicino al biliardo.
Era tutto in legno scuro, il proprietario stava dietro al bancone a preparare birre con un enorme tatuaggio sul braccio sinistro. Cercai di capire, muovendo la testa a sinistra e a destra, era un diavolo, o meglio, una faccia di un demone infuocata,
doveva essere stato fatto molto tempo fa dato che era diventato bluastro.
‐ Che prendi amico?
‐ Vorrei una Birra gelata.
‐ Un caffè?
‐ No, una Birra.
‐ Una biro?
‐ Si grazie, e magari anche dei pennarelli.
Non sapevo se mi stava prendendo in giro o era scemo. Un tizio vicino al biliardo
attirò la mia attenzione.
‐ Il nostro Freddy è un po’ sordo, devi scandire bene le parole con la bocca, ha preso una bella botta in una rissa, ha un eterno ronzio nell’orecchio.
Comunque la birra arrivò sul mio tavolo, me la portò un angelo.
Mi sorrise, un sorriso di cortesia, senza pretese o allusioni. Uno di quei sorrisi dovuti ad un cliente che ordina una birra. Mi girò le spalle e si diresse velocemente verso un altro tavolo, prendendo con una mano i boccali vuoti. Aveva la carnagione chiara, portava un enorme e folta chioma biondo scuro adornata da favolosi e morbidi ricci.
Mentre sorseggiavo la birra arrivo Freddy con una biro e un foglio. Lo guardai stupito,
e lui semplicemente mi disse:
‐ Ecco qua amico.
Mi aveva portato in effetti una biro, roba da non crederci, cioè gli sembrava normale il fatto che uno entri in bar e ordini una biro. Mi venne in mente di scrivere una poesia magari per donarla al mio angelo. Impugnai in bello stile la penna, ecco lo scrittore che inizia a sgorgare fiumi d’inchiostro magico, che regala alla gente illusioni, talvolta durano ore talvolta giorni ma il fatto che sono solo sogni o fantasie di qualcuno, un qualcuno che racconta la vita secondo il suo punto di vista, secondo il suo modo di stare al mondo.
Non ti dirò chi sono per non rovinare tutto,
non chiederò chi sei per non rovinare tutto,
ma lascia che ti guardi, che veda il tuo delicato sorriso,
che stringa al cuore i tuoi capelli, che ricordi i tuoi passi.
Potrei ascoltare la tua voce durante una tempesta,
ma non parlerò mai di te a nessuno per paura di vederti volare
insieme alle parole.
Ti vedrò andare a piedi scalzi nella notte, indossando una sottoveste leggera.
Non guardarmi potresti non vedere nessuno, ma guardandoti potrei vedere
Il mondo intero.
Lasciai il foglio sul tavolo piegato con i soldi dentro.
Mi alzai, guadagnai l’uscita salutando a palmo aperto Freddy che neanche mi guardò. Mi fermai, volevo vedere, ero curioso dell’effetto della mia Poesia.
Rimasi vicino alla vetrina, in un punto dal quale non potevo essere visto dal bar.
Dopo aver passato la spugna su due tavoli vicino al mio, finalmente prese in una mano il foglietto sfilando con l’altra i soldi. Lo apri con due dita, lesse il contenuto senza un’espressione in viso. Un sorriso parve ferire la sua faccia, lo strappò senza pietà. Lasciò cadere i pezzetti nel posacenere disprezzandoli, provocando le risa del tizio vicino al biliardo. Rimasi incredulo, non tanto perché non accettò la mia poesia, quanto perché l’aveva stracciata, aveva stracciato la mia fatica. La gente pensa che sia facile scrivere una poesia, be’ non è cosi.
La odiai enormemente, avrei voluto picchiarla, tu non sai cosa hai fatto io Ernest Borodin. Bussai alla vetrina, bussai di nuovo con più vigore, si girarono tutti e per ultima lei. La guardai negli occhi, gli girai le spalle e andai via.
Ore sette del mattino, in un posto vicino al mare, al terzo piano di un palazzo suona
la porta, la porta che suona, nessuno risponde.
Ore sette e un minuto del mattino, in un posto vicino al mare suona una porta.
Non credo di aspettare qualcuno, e poi a chi darei mai appuntamento alle sette e un minuto del mattino.
Ore sette e due minuti del mattino, in un posto vicino al mare, al terzo piano di un palazzo suona la porta. Non so chi tu sia ma ti odio, odio il tuo modo di stare attaccato al campanello. Odio il tuo modo di tenere il dito puntato sul campanello, odio il fatto che sono le sette del mattino. Aprii un occhio senza svegliare l’altro, presi una maglietta dalla sedia vicino, la infilai alla rovescia, inciampai.
‐ Chi è?
‐ Io.
‐ Io chi?
‐ Io.
La porta si apre, due sospiri, il cuore che batte veloce.
Era lei, la distruttrice della mia arte, l’angelo dai capelli biondi, la sfinge bianca.
‐ Che vuoi?
‐ Ecco io vorrei……scusarmi.
‐ A si, e per cosa?
‐ Be’, per avere fatto a pezzi la tua poesia.
‐ Non ti preoccupare, non è difficile, ne scrivo tante.
‐ Comunque guarda. Tirò fuori dalla tasca un foglio stropicciato contornato da nastro adesivo, la mia poesia. Mi veniva da piangere, ero commosso, sentivo un nodo in gola. Comincia a balbettare,
‐ Vuoi entrare, come ti chiami, vuoi bere qualcosa, mettiti comoda. Non mi stavo
rendendo conto che la stavo sommergendo di parole senza lasciargli il tempo di respirare. Lei entrò timidamente, aveva le guance rosse e delicate, avrei voluto leccargliele tanto erano morbide e indifese. La feci accomodare, si adagiò sulla sedia dolcemente, senza peso.
‐ Da quanto è che scrivi?.
‐ Ma da sempre. La mia bocca prese una posa da soprammobile antico.
Rovistai dentro una cartellina rossa, ne tirai fuori dei manoscritti. Lessi rapidamente i titoli, cercandone uno adatto al momento, eccolo, LA VENDICATRICE DI SALMONI. Non era una poesia ma un racconto su di una donna pescatrice che si era innamorata del suo capitano.
Alzò lo sguardo posandolo su di me, e ne fui felice.
‐ Potrei leggerlo?
Puoi fare tutto, puoi anche uccidermi, puoi spegnere il sole, basta che mi guardi negli occhi.
‐ Si, ma se non ti dispiace vorrei che lo leggessi ad alta voce.
‐ D’accordo.
Iniziò a leggere con voce dolce, da prima tremante ma poi prese sicurezza e volò.
Le lacrime mi cominciavano ad annegare gli occhi. Era un sogno, era come se un angelo si fosse messo a leggere nella mia stanza.
Lei era evidentemente emozionata da quello che leggeva tanto che ad un tratto si fermò,
‐ E’ bellissimo.
Non stava fingendo era davvero emozionata, si era emozionata leggendo un mio racconto, roba da non crederci.
Uscimmo dalla stanza e prendemmo la strada per la spiaggia. Il sole era caldo, le vie scorrevano velocemente sotto la macchina. Arrivammo alla scogliera, non c’era nessuno, ad un tratto mi venne in mente il fatto che non sapevo neanche il nome della mia ammiratrice. Presi le bottiglie di birra dietro il sedile e scesi dalla macchina.
Lei stava sul bagnasciuga giocherellando con l’acqua,
‐ Scusa.
‐ Dimmi.
‐ Io ancora non so il tuo nome.
‐ Anella. Lo disse voltandosi, lasciando cadere i capelli sul viso.
‐ E tu?.
‐ Ernest.
Mi venne vicino dandomi un bacio sulla guancia. Rimasi immobile, un sasso sulla sabbia.
Stappai le birre, ci sedemmo in silenzio guardando il mare.
‐ Non mi abbracci?
‐ Dovrei?
‐ Forse.
Si alzò in piedi, si tolse la maglietta.
‐ Vado a farmi il bagno.
Rimasi a guardarla mentre si spogliava. Mise a nudo il suo corpo, mi sembrava di morire, i seni erano tondi, stavano su come sculture di marmo liscio. Guardai più in basso e arrossi.
Prese una breve rincorsa e continuò fino a che l’acqua non gli arrivò alle spalle.
‐ E’ bellissimo, l’acqua è calda.
Mi spogliai in fretta, titubando un attimo al momento di togliere i boxer.
La raggiunsi con due bracciate. Si avvicinò muovendosi appena, adesso i suoi seni spingevano contro il mio petto. Fui preso da un attacco di gratitudine verso La Vendicatrice di Salmoni. Sentivo una parte di me impazzire dal desiderio.
Prese a baciarmi il collo. Piccoli e brevi baci che ebbero un effetto terrificante.
La strinsi, mise le gambe intorno ai miei fianchi. Sentiva la mia passione mostrandomi tutto il suo desiderio. Lo facemmo anche sulla spiaggia coperti da due scogli. Ci asciugammo e tornammo alla macchina. Ci Infilammo nella mia stanza, Anella entrò nella doccia e io mi sdraiai sul letto con l’aria soddisfatta, cercando il pacchetto di sigarette.  Le gocce d’acqua si adagiavano sul pavimento allungandosi in forme strane.
Aveva in dosso un piccolo asciugamano che la copriva appena. Si stava strofinando i capelli, si fermo di colpo, mi guardò,
‐ Vuoi fare l’amore?,
Non risposi subito,
‐ Si, penso che mi andrebbe proprio.
Io Ernest Borodin, lo scrittore, io, sono qui con un sogno, io ho scoperto che l’amore è dolce, io vorrei fermare il mondo e gridare a tutti che so amare e che amo una ragazza, e che la vita può essere bella.
Facemmo l’amore, mi addormentai beato.
18:28, mi svegliai cercando con la mano Anella, trovai solo il lenzuolo un po’ umidiccio. Mi misi a sedere sul bordo del letto, più in la, in disparte sul comodino una lettera.
‐ Mio piccolo scrittore, sono andata a lavorare, ci vediamo più tardi.
Risi, risi perché era tutto vero, risi perché passai il giorno più bello della mia vita, risi perché esisteva.
Mi feci una doccia al volo e sempre volando mi infilai i vestiti.
Scesi le scale, il signor Persifal era fuori della sua porta con in braccio un impiastro di cane. Il bello e che non me ne importava niente, avevo smesso di odiarlo.
‐ Va di corsa Signor Borodin?
‐ La amo signor Persifal.
Rimase con la mano incastonata nel pelo del cane. Arrivai davanti al Bar e il cuore già mi batteva a cento. Mi nascosi nel solito posto per non essere visto.
Di Anella neanche l’ombra.
Cera il solito tizio vicino al bigliardo e Freddy intento ad incrociare le parole. Cominciai a cercare veloce con lo sguardo in mezzo ai tavoli, mi mancava l’aria, e di lei nessuna traccia.
Era vera?
Ad un tratto la porta della cucina si apri facendo uscire il suo stupendo viso, si diresse con due piatti in mano verso un tavolo. Li posò con un sorriso, andò dietro il bancone, si asciugò le mani con cura e poi, tirò fuori della tasca la mia poesia.
Pieno di gioia mi voltai puntando il pugno in alto,
‐ Ernest Borodin il grande scrittore.
Mi sedetti sul marciapiede, accesi una sigaretta e guardai le stelle.