Leggerezza

Ecco, sono tornati. Come ogni anno, ad ogni primavera inoltrata, ritornano: leggeri, bianchi, impalpabili. Volano danzando senza meta, dondolando incerti sulle ali della brezza, seguendo ogni lieve soffio di vento, galleggiando nell’aria tiepida senza regola.
Velano il terreno con soffici trasparenze, si addensano lanosi ai bordi delle strade, vagano verso l’alto cercando, cercando…
Sono i fiocchi bianchi dei pioppi.
Annuncio di una prossima estate, come ogni anno, si aggirano tra le cose, tra le case, davanti ai nostri occhi ancora abbagliati dai primi soli della stagione. E noi… ce ne andiamo con loro.
Eccoli: sono i nostri pensieri, rarefatti nell’aria, che si disperdono e se ne vanno in cerca di orizzonti, ansiosi di  libertà, ancora intorpiditi dall’inverno ma bisognosi di spazi infiniti, di sole, di luce, ribelli a ogni regola e a ogni logica.
Sono i nostri sogni, che sfuggono ai confini ristretti della realtà e  rincorrono miraggi lontani, in cerca di superiori armonie.
Non c’è, in queste farfalle erranti, la gioia frizzante e l’incanto lieto dei fiocchi di neve, ma la dolcezza un po’ ebbra e malinconica che suggerisce il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo e anche il desiderio un po’ folle di sfuggire alle severe leggi della ragione, di lasciare i binari prestabiliti per trovare nuovi sentieri, nuovi linguaggi.
Leggevo, qualche tempo fa, Italo Calvino e le sue “Lezioni americane”. Una cosa, tra le altre, egli voleva salvare e trasmettere alle nuove generazioni  del Millennio: la “leggerezza”. Quella leggerezza di spirito che dona la libertà interiore, dà le ali alla fantasia, ispira la gentilezza dei sentimenti e crea, infine, la poesia.
Oggi il lieve volo di questa neve di primavera sembra parlarmi  lo stesso linguaggio: è un messaggio gentile alle nostre esistenze appesantite dalle consuetudini quotidiane, dall’amore per le “cose”, dalla disarmonica banalità del vivere; un invito a saper vedere ugualmente la bellezza e a spiccare, nonostante tutto, il magico volo della poesia.
Così, con “leggerezza”, distolgo lo sguardo da quanto vedo intorno a me in questa città, deformata dalle ferite della storia e dalle cicatrici del suo tributo alla modernità e al benessere, e cerco di volare là dove, dice Calvino, giungono i poeti, gli artisti o quanti vogliono guardare il mondo con gli occhi della mente e del cuore per donare alla realtà la levità del sogno.
Con “leggerezza” sollevo lo sguardo dal triste traffico stradale e lo dirigo sui tetti della città, dove intrecciano voli i colombi sullo sfondo di un tramonto rosato. I campanili delle chiese del Suffragio  e di Santa Maria in Corte si stagliano contro il cielo, vegliando con severa austerità questo paesaggio urbano che, nonostante tutto, ha un suo fascino antico. Sullo sfondo, la dolce compagnia delle colline che, con i loro chiaroscuri sfumati, fermano la corsa  dello sguardo verso l’orizzonte, quasi a donarci sicurezza e punti di riferimento perenni.
Tra poco, a giorni, arriverà il profumo dei tigli. E io come ogni anno tornerò adolescente, a un mese di giugno lontano, quando l’intera città era pervasa da un aroma dolce e inebriante. Era la stagione dei miei diciotto anni e io, tra gli alberi della piazza e lungo i sentieri dei giardini, scoprivo i primi sussulti del cuore e l’incanto delle prime emozioni.
Con “leggerezza”, sollevo gli occhi dalle modeste case di via Sigismondo e dalla strada ingombra di motorini e biciclette ammassate lungo i marciapiedi scalcinati, e volo su verso quel miracolo di bellezza che è la chiesa di S. Agostino. Vista così, dall’angolatura dell’abside e del campanile, vegliata da cipressi scuri, suscita ogni volta emozioni profonde. Allora tutto scompare intorno; la chiesa sembra ergersi isolata nella sua purezza di linee, nella severità raccolta e mistica delle sue pareti, nella sobria eleganza dei suoi pochi elementi decorativi. Semplicità e bellezza, forza e armonia, lavoro umano e spiritualità: un assoluto inimitabile di perfezione. E ancora una volta provo il senso di inspiegabile, felice appagamento che la vista della chiesa di S.Agostino mi sa regalare.
Con “leggerezza”, volto le spalle ai palazzoni del Lungomare, alla folla chiassosa che già, in questo inizio d’estate, porta i suoi colori sgargianti, i suoni stridenti dei suoi veicoli, la sua esuberanza disordinata, e guardo verso l’orizzonte.
Il fragore perenne del mare mi culla in una sorta di incanto. Sulla riva torna e ritorna il velo perlato delle onde, con movenze sempre varie e sempre uguali, per distendersi liscio in una lunga carezza. E rifluisce con chiari e lucenti rivoli che scorrono nei solchi ondulati della sabbia, lasciando quieti specchi d’acqua, tra frammenti di conchiglie e orme che si vanno cancellando. In alto volano i gabbiani, inseguendo vele bianche che vagano lontano, mentre in cielo si stracciano lentamente cirri sfilacciati e rarefatti verso l’orizzonte.
Così il tempo non è più tempo: tutto scompare e tutto ritorna, nel ritmo armonioso della vita.
La neve di primavera oggi mi sta conducendo lontano : il suo messaggio di leggerezza e di libertà mi invita a una confusa, indistinta ricerca di bellezza e mi lascia il desiderio sottile di continuare all’infinito questo “volo” senza meta, di vagare coi pensieri lontano, in sintonia con la danza lieve e un po’ folle dei fiocchi bianchi dei pioppi.
Tratto da "Passeggiata d'autunno"