Nebbie

Suona la sirena del porto, come in ogni notte di nebbia. E’ un suono malinconico, insistente, un richiamo accorato e solitario nel silenzio, proiettato verso il nulla. Costante e ripetitivo come i battiti del cuore, regolare come il respiro. E’ lamento di solitudine, domanda senza risposta, grido che penetra il mistero senza svelarlo e subito si spegne in un’eco sommessa...
E’ la voce della nebbia, dei mari e delle nebbie  di ogni tempo e di ogni luogo. Ma nel lento scorrere delle ore, quella nenia monotona diventa una voce amica, una compagna fedele nella notte.  Mi fa sentire a casa, vicina al mio mare, avvolta dalla mia nebbia, che fascia i contorni della mia città.
Nebbia di mare, che non è nebbia di città. Non è la coltre immobile e impenetrabile che limita i sensi e rende opaca la mente, ma è una nebbia portata dall’acqua, che viene da lontano, da quell’orizzonte che per noi gente di mare prefigura l’infinito. Si addensa in banchi fumanti colmi di mistero e si dirada in visioni improvvise per velarle subito di nuovo, in un’alternanza imprevedibile che ha la dimensione del sogno. Viene e poi va come la marea, ma è mutevole come le correnti. Cancella ogni confine: noi siamo  sulla terra e siamo sul mare. Siamo al di là del mare. In un mondo sterminato dove si offusca la vista fisica e si apre la vista della mente che ci fa essere qui e altrove, al di fuori del tempo. Dal mio guscio caldo e protetto la sento, la vedo: la nebbia. E in essa colgo apparizioni immobili e  fugaci, quasi visioni della mente: frammenti di una realtà  indistinta che non si mostra ma suggerisce solo brevi intuizioni, improvvise rivelazioni che subito scompaiono. Sta fluttuando densa tra i pinnacoli e gli arabeschi del Grand Hotel, traforata dalle ombre scure e frangiate  delle tamerici nel lungomare. Sta planando sulla distesa  quieta della spiaggia e poi sull’acqua. Sale su lungo i viali, trafitta  dalle pallide luci dei lampioni che diffondono aloni opachi, scivola tra le case e ristagna nelle piazze, fasciando i fantasmi scuri  dei palazzi comunali e stracciando lentamente il suo velo sui marmi bianchi del Tempio.
Non è la nebbia leggera e piovigginosa  che  risale le colline, odorosa di fumo e di mosto nei borghi laboriosi amati da Carducci. Non è il Limbo felliniano di Amarcord, dove la vita e la morte sembrano toccarsi in una dimensione  trasognata di attesa e di smarrimento. Non è il  rimpianto nostalgico di Quasimodo nel rievocare un antico autunno. O la trasparenza poetica di Monet che stempera i colori e la luce sulla cattedrale di Rouen, giocando con le “impressioni”.
La mia nebbia è un’amica silenziosa, eppure risonante di messaggi. Già l’ascoltava Pascoli quando coglieva nel suo mare grigio l’intuizione del mistero che avvolge il mondo e in essa intravedeva  rare ombre solitarie: quelle dell’uomo sperduto e spaurito che  vaga, angosciato  dalla minaccia del nulla, nel  vano tentativo di captare qualche frammento della verità. 
Ma l’itinerario “astrale”, che conduceva il poeta ad affacciarsi nelle voragini misteriose dello spazio e del tempo, non mi procura lo stesso sgomento.
L’abbraccio  quieto della nebbia è un invito al mistero, un ammonimento al limite insuperabile della conoscenza, ma nel mio animo ansioso di infinito si traduce in un invito, allettante come il canto delle sirene, all’abbandono fiducioso. E mi trascina dolcemente nel grande mare dell’essere.

Tratto da "Passeggiata d'autunno"