Occhi di stelle spalancati come ali di angeli

Gli occhi delle stelle si spalancarono come ali di angeli. E tra le dita il suono delle loro piume fuggiva via come i capelli che le donne donano alle mani del vento. Fu come un velo che coprì la città, come neve sulle ciglia nere dei bimbi. E il sorriso dei bambini fu come il bacio dolce che ora la luna custodisce tra le mani. Il vento, lo chiamai, perché potesse rapire le mie labbra e perché potesse trasportarle proprio tra le dita della luna. Il cielo, gli parlai e gli domandai come stesse. E poi gli chiesi un abbraccio. E allora caddero. Caddero le piume degli angeli. Bianche come pioggia di garofani. Bianche come pioggia di estate. Volavano come petali nell’aria.
Corsi sulla collina. Corsi tra i sassi e l’erba alta. Corsi inseguendo il sole. Arrivai in cima e guardai i tetti ricoperti delle case. Volevo baciare le nuvole tanta era la felicità e l’euforia.
E allora le mie gambe tornarono a correre. Corsi verso mio fratello. Corsi a casa.
“Francesco! Francesco!”‐ lo chiamai.
“Giulia, finalmente sei tornata. Dove sei stata?”‐ mi domandò la mamma che era nella nostra piccola cucina vicino al mattatoio. Il fazzoletto nero sulla sua testa, legato dietro la nuca, le copriva i bei capelli.
“Mamma! Dov’è Francesco?”
“Fai silenzio, si sta riposando. Ha pianto tutta la mattina.”‐ disse la mamma mentre faceva il pane che Francesco ed io non avremmo mai mangiato, perché sarebbe stato venduto alle altre famiglie agiate del paese.
Pensai alle lacrime del mio fratellino e preoccupata andai nell’altra camera.
Sul letto c’era il piccolo Francesco che dormiva. Aveva le guance rosse e calde, la fronte sudata e il respiro affannato.
Gli presi la mano e la strinsi nella mia. Senza dir nulla, lo guardai e lo baciai. Presi la pezza bagnata che era nella bacinella vicino al letto, la strizzai e la posai sulla sua fronte.
C’era chi la chiamava febbre gialla, c’era chi la chiamava peste, chi la chiamava la maledizione portata dagli schiavi africani. Io non sapevo quale fosse il suo nome, sapevo solo che a causa sua mio fratello erano giorni che non usciva di casa ed erano giorni che non si muoveva dal letto.
Persa nei miei pensieri continuai a tenere la sua piccola mano bianca e gonfia nella mia, poi vidi i suoi occhi azzurri. Aprì gli occhi e si girò verso di me sorridendomi. I suoi occhi blu somigliavano a zaffiri e sembrava che brillassero più dei diamanti.
“Tato, come stai?”‐ gli domandai.
“Bene.”‐rispose con la sua voce fioca.
“Sai, c’è una sorpresa per te.”‐ gli dissi aprendo la tendina della piccola finestra.
Le piume cadevano come grandi fiocchi di neve. Leggiadre dondolavano nell’atmosfera e il sole le illuminava. Ogni piuma sembrava fatta d’argento e come se fosse stata una magia catturava i nostri occhi.
“Tato, hai visto? Sono le piume degli angeli. Il cielo te le regala.”‐ gli dissi mentre attonito lui guardava la meraviglia del paesaggio.
Francesco sorrideva. Estasiato guardava quella strana e stupenda pioggia. I suoi occhi puri sembravano gli specchi della verità.
Non dicevamo nulla. Abbracciati sul letto guardavamo le piume cadere.
“Guarda, Tato! Anche l’arcobaleno! Hai visto?”‐ gridai contenta indicandoglielo.
Però Francesco non mi rispose.
I suoi occhi azzurri aperti ma persi nel vuoto guardavano verso la finestra. Il suo dolce sorriso permaneva sul suo volto. E la sua fronte che ogni notte era calda come il fuoco che lo consumava fino alle ossa, era fredda, come fredda può essere solo una notte d’inverno.
“Tato…”‐ lo chiamai sottovoce come per paura di svegliarlo.
“Francesco…”‐ bisbigliavo il suo nome.
“Tato…”‐ singhiozzavo parlandogli all’orecchio.
Le lacrime caddero come le piume che quel giorno erano scese dal cielo. Le lacrime uscivano e bagnavano il mio viso. Stringevo il suo corpo al mio. Lo tenevo abbracciato a me.
Le mie braccia stringevano il corpicino di mio fratello mentre il mio petto impazziva tra i singhiozzi.
“Giulia.”‐ era la mamma alla porta che mi chiamava.
Gli ultimi raggi del sole illuminavano il volto del piccolo Francesco mentre la pioggia di piume era terminata.
La mamma si avvicinò. Staccò con pazienza le mie braccia da lui perché facevano resistenza nel loro doloroso desiderio di rimanere attaccate alla sua pelle.
Piangevo senza dire nulla. Piangevo a testa bassa, coprendo con i capelli il mio viso e la mia tristezza, il mio vuoto e la mia solitudine.
La mamma prese in braccio il piccolo, gli chiuse gli occhi. Gli baciò la fronte come faceva ogni sera prima di andare a dormire.
Tratteneva le lacrime: lei forte segregava nel suo cuore i suoi pianti.
Il braccio di Francesco scivolò dalla spalla della mamma. Giù, scivolò giù come un ramo rotto.
“Resta qui, faccio subito”‐ mi disse la mamma accarezzandomi.
La guardai dalla finestra. Portava il piccolo Francesco sul carro dove erano messi tutti gli altri malati… Gli avrebbero dato fuoco… Il mio fratellino…
La mamma lo posò con cura…Gli baciò di nuovo la fronte e poi come se avesse delle convulsioni  iniziò a baciargli le guance. Gli uomini allora la allontanarono.
Quei corpi su quel carro: erano tutti stretti senza ritegno come carogne.
E tra loro c’era Francesco.
Le sue braccine e le sue piccole gambe nude. I suoi piedi scalzi.
Lo guardavo dalla nostra finestra e poi mi accorsi che avevo dimenticato un qualcosa di importante: non gli avevo detto che gli volevo bene.
Allora presi un lenzuolo bianco e corsi fuori. Corsi sperando di far prima degli uomini pronti con le loro fiaccole di fuoco.
Mi buttai su Francesco, davanti a tutti, lo coprii con cura.
“Così non sentirai freddo”‐gli sussurrai‐“Fratellino, fai sogni d’oro. Buona notte. Ti voglio bene.”
Un uomo mi allontanò delicatamente da lui: “Vieni, piccola, allontanati”.
Mi girai, diedi le mie spalle al carro, e mi strinsi alla mia mamma tenendo la stoffa del suo vestito stretta alle mie mani.
Il calore del fuoco, lo sentii dietro la mia schiena, mentre le mani delicate della mia mamma, le sentivo protettive sulla mia testa e le mie spalle.
Piangevo, altro non potevo fare. Bagnavo con le mie lacrime la stoffa ruvida della gonna di mia madre. E sentivo il mio cuore che aveva bisogno di sgonfiarsi e di togliersi di dosso tutte le lacrime.
“Andiamo a casa”‐ disse la mamma.
Mi prese in braccio e andammo in quella piccola e povera dimora dove le uniche sopravvissute della nostra famiglia eravamo noi.
Appoggiai pesantemente la mia testa sulla spalla di mia madre. I miei occhi gonfi si aprirono e videro il carro infuocato. Riconobbi un pezzo di lenzuolo bianco che presto fu anch’esso mangiato dalle fiamme.
Sui miei occhi neri sentii il riflesso del fuoco, alzai la testa e senza piangere salutai per l’ultima volta mio fratello.    Piccolo tributo, ispirato a Manzoni, “I Promessi Sposi”, cap.34