Per poco, Antonio, per poco...

Caro Don Antonio Sartori, ricordo quale fu, la prima volta del nostro incontro. Spesso, poi, nella mia vita, ti ho chiesto rifugio, nella, accogliente, tua Cittadella, ad Assisi. Una fredda notte, la solitudine dei miei fari, che sbagliavano vie su vie, inseguendo pensieri. Tornanti senza stelle, nevischio sul tergicristallo, una pena dentro, incolmabile. Una messa di mezzanotte, un Natale, che osservavo passare su di me, senza traccia di serenità. "Dopo messa, una cioccolata assieme, in cella?" Un tuo invito, che non dimentico. Un salvagente buttato all'anima. "É un grande teologo, vedrai." Mi avevano preannunciato, e temevo la tua vicinanza. Io sono rimasto al catechismo parrocchiale, quello della prima comunione. Sorseggiammo, in silenzio, quel liquido denso, caldo, cremoso. Le stelle sembravano entrare nella buia cella. Non una parola. Il tuo sguardo, su di me, aveva un peso leggero. Una vertigine di corpo e anima.                                      "Può bastare, per stanotte. Va un po' meglio, Lucio?"
Un pomeriggio domenicale, sul Nevskij prospekt di Leningrado. Un inverno grigio e freddo. Ancora la vecchia Unione Sovietica, povera, cenciosa, buia, come una pagina di Dostoevskij. Marciapiedi colmi di volti senza espressione, vecchi cappotti, incipriati di ghiaccio. Una massa solida, in movimento perenne, senza meta. "Lucio, stamane, non ho detto messa, devo tornare in albergo. Mi accompagni?" In quel polveroso salottino, in un freddo corridoio dell'enorme hotel, due poltrone di pelle consumata e un tavolino sgangherato. Tirasti fuori dalla tua borsa due bottigliette. "Guarda un po', in cucina, se ti danno del vino, acqua e un pezzo di pane". Quando te li portai ‐"Ora siediti comodo, in poltrona, rilassati, sarai stanco". Che spettacolo, quella messa, che mi offristi! Possibile che la cena del Cristo potesse rinascere, con me e te, in quel momento, con tale semplicità. C'era posto per un Dio, in quel salottino polveroso, ostico? Ne ebbi un’intuizione, grazie a te.
Un luglio, in Finlandia. Era di primavera. Al tramonto, giungemmo ad una chiesetta di legno, un pezzo d'arte, firmato da Alvar Aalto. La foresta l'avvolgeva, rabbuiandola dall'azzurro dell'immensità del cielo. Vedo ancora la scenografia, dietro l'altare. Un sipario di cristallo apriva la visione di una via, tra alti alberi ventosi.  La croce, ampia, nera, decisiva, chiudeva lo sguardo, in un orizzonte prossimo.                                       ‐" Lucio, prima d'iniziare messa, vai fuori. C'è una corda che scende dal campanile, suona la campana"‐   Ricordo quell'invito, improvviso, che mi mise imbarazzo. Il suono, lanciato da me, nell'immensità, tra i mille laghi e le immense foreste della Finlandia, non terminava mai, si ampliava in cerchi infiniti. C’ero io, al centro di quel suono. Cos'era mai? Un pianto, un lamento, forse, una preghiera. Che mi avevi mai fatto fare? Per poco, Antonio, per poco, stavo per credere.