Renato, il Bello

Una di quelle sere d’inverno, in fuga da me stesso e dalla città. Le curve della valle del Noce scendono in un labirinto di ombre. Il cielo spento, copre le mie ansie. Il bagliore di un raggio nello specchio retrovisore, mi avverte che non sono solo. Un grosso Tir mi sta dietro, con la sua massa. Scalo le marce con ritmo, ad ogni entrata in curva. E’un valzer, questo alternarsi dello sterzo nelle due direzioni opposte. Se sai ascoltarlo, anche il motore ha una sua musica. Il mare è oltre quella muraglia scura. Non lo avverto ancora. O forse è quel sentore di muschio che avverto, portato dal vento, da scogli lontani. Il cellulare squilla, inatteso. Ma non lo avevo spento? La mano abbandona il volante e lo cerca nella tasca. Vorrei rifiutare la chiamata, ma la mano, cieca, ha già aperto involontariamente il contatto.                                                                                               – “Pronto? Pronto?” ‐                                                                               E’ una voce, anziana, stentorea; le ultime sillabe rubate da un soffio di un respiro mozzato. Un mio paziente, a quest’ora? Può essere.  La voce si perde tra le note del motore, che aumenta di giri, nello scalare di marcia. Ha sicuramente una patologia, questa voce. L’orecchio del medico sa riconosce le malattie. Uno scompensato, un grave problema respiratorio, sicuramente. Un neo polmonare?                                      – “Ti ricordi di me, sono Renato?” ‐                                                                       Quel piccolo volumetto, trovato, nella mia biblioteca. Erano i tempi del risparmio, l’ansia del vivere dei genitori. Il professor Tarditi, ci aveva richiesto un Eneide in latino, e tu, Renato, mi avevi offerto quella di tuo nonno Andrea. Sai, mi ha fatto impressione a riscoprire quella mia calligrafia incerta, se pur giovane, in calce ad alcuni capitoli. Appunti frettolosi, incuranti della preziosità del libricino. Ma servivano a difenderci da un pessimo voto, apposto sul registro dal vecchietto, cosi lo apostrofavamo Tarditi. “Continua tu!” Ricordi? Quel dito che c’indicava, improvvisamente, e noi si cercava quel maledetto verso di salvezza, che avrebbe dato la certezza della nostra attenzione. L’amicizia era un suggerimento a mezza voce. Ho avuto il desiderio di restituirlo dopo una vita. L’ho ridato a un ragazzo, che avevo lasciato in piena gioventù. Tu, Renato il bello della 3°B, l’amato dalle ragazze del liceo Colombo. Ti venivamo a vedere ai tornei di tennis. Vincevi con classe. Mi piaceva quel lancio della racchetta, in aria, al termine di una vittoria. Confesso che ti ho un po’ invidiato, per quel tuo saperci fare con le nostre compagne. Sembrava che vedessero solo te.                                                   ‐ “Pronto, Lucio, ti ricordi?” ‐  La voce ora è flebile. Il contatto telefonico cade improvvisamente, nella gola delle montagne. Ho desiderato che tu non mi ritelefonassi. E così è stato.