Riccioli e inchiostro

La polvere  insieme al grigio di città si faceva portatrice di odori, sapori e di ricordi sbiaditi. Forse vissuti o probabilmente tramandati. Da lì dentro risuonavamo, un po’ ovattati, i polpastrelli battuti a ritmo su una macchina da scrivere usata mentre il direttore sulla scrivania rumoreggiava, a suon di scherzo, una bacchetta improvvisata per richiamare i colleghi troppo lungamente fissi sui fogli. Teso sul foglio, con riccioli biondi impastati di fumo e parole, sedeva annoiato il nuovo ragazzo fresco di recluta. Riuscito a sfuggire agli inganni del posto fisso e alle carte d’avvocato, provava a buttare giù ciò che gli riusciva meglio. Di gavetta ne faceva ogni giorno, senza troppo chiedere, camminando tra i vicoli e le viuzze del paese dai passi lenti. Sempre pronta, a margine d’orecchio, una matita ed in tasca alla giacca color beige un vecchio taccuino di squisita pelle nere. Armi più che ornamenti. Da casa sua una vista privilegiata: l’immensa ed affollata stazione, con il suo via vai di arrivi e partenze, forze dell’ordine e qualche scalmanato in cerca di guai che, spesso, non gli negava un articolo a piè di pagina. Ma veniamo al punto. Un giovane, figlio di Giurisprudenza per un destino già segnato e reduce di buona famiglia, aveva iniziato a diciotto anni come correttore di bozze. Certe passioni si sa, costano caro e di rado ti vengono perdonate. A lui nulla riusciva meglio del mettere quattro parole in croce, ed un innato senso della notizia che, senza quello, si sa, non si va da nessuna parte. Tra gli ostacoli molto poco centrava la questione economica. <<Un giornalista, in casa mia, a che pro? Un bell’avvocato o un medico fanno la sua figura?>>, si sentiva ripetere di fronte ad una tavola scarsamente imbandita. Ogni singolo pezzo battuto a macchina diventava un tesoro di pergamena. Il ricciolo biondo li ritagliava con cura chirurgica e poi gli strizzava in una scatola di legno di vecchie bottiglie di vino. Quante volte la memoria gli richiamava, come un sogno, le ore notturne in cui il padre sgattaiolava in camera sua, apriva la scatola e li leggeva a lume di candela per non dargli a vedere di provare interesse per il suo lavoro. E molteplici volte, quegli articoli sparivano. Leggende metropolitane vogliono che quei fogli di giornale finissero nel cassetto dell’ufficio del padre o al macero. Tra i soliti pezzi di polemiche cittadine o necrologi, ogni tanto, gli capitava tra le mani una notizia di parecchie lire. Il giovane ed allora forse folle piccolo giornalista in beige incappò in quello che ingenuamente chiamava “succulento scoop”. In città, da settimana, erano spariti due amici. Nessuna traccia la famiglia ne aveva e nemmeno le rispettive mogli. L’ultima volta che i due erano stati avvistati era a bordo della loro decappottabile rossa. Il giovane ratto della carta stampata raccoglieva commenti e indiscrezioni di paese. Chi gli aveva sentiti litigare la sera prima al bar, chi maneggiare contanti nel parco, chi noleggiare una nuova autovettura per far perdere le tracce. Insomma, difficile distinguere tra chiacchiere di paese e verità ma, nel folto delle parole, l’indagine si arricchiva di particolari. Il tempo volle che l’auto dei due amici scomparsi venne ritrovata in periferia completamente data alle fiamme. Dentro nessuna traccia di cadaveri o indizi che facevano risalire agli scomparsi. Trascorsero forse pochi giorni per rendersi conto che, i due amici, erano incappati in un giro losco di affari. Lo stesso turbinio che probabilmente li aveva condotti alla morte. Sulla scia degli inquirenti due indagati, fratelli della bassa Italia. Il giovane sbarbatello incallito scrivano volle farsi mandare nel luogo dove, probabilmente, la morte dei suoi compaesani si era consumata. Girava, infatti, l’ipotesi che i corpi dei due sventurati giacessero esanimi sotto i suoi mocassini. Misto ad adrenalina e verità, il giornalista di provincia li intervistò non mancando una sola tappa dell’inchiesta. Prima di arrivare a casa dei sospettati aveva avvertito il locale comandante dei carabinieri certo, così, che nulla li sarebbe accaduto. A questo punto, entrano in gioco le donne. Quanti generi diversi di esseri femminili costeggiano la vita di un uomo malato di passione. Due in verità, al massimo tre. Per l’incallito ricciolo furono due le decisive, così diverse e incontentabili in modi diversi. La prima era il ritratto della loggia delle madri moleste e in disaccordo perenne. L’altra, docile e forze da far spavento. Di quest’ultima ci piace parlare. Perché rattristarvi con le nefandezze della prima. Ricciola anche lei conobbe l’incallito cronista nel negozio dove lavorava. Era venuto, di martedì mattina alla buon ora, nell’ennesimo completo beige che, diceva lei, faceva molto effetto naftalina. Le era antipatico, accidenti quanto lo odiava. Gli sfuggiva sempre ogni singola volta lo vedeva sbirciare dalla vetrina per accertarsi che il proprietario dell’attività, suo amico, fosse dietro al bancone. Non trascorsero che pochi inverni prima che la ricciola, anch’essa ribelle, gli cadesse tra le braccia. Spesso la fanciulla dalle mani affusolate lo andava a trovare in redazione. Muta, come un gufo in attesa, si appollaiava sulla sedia e lo fissava mentre batteva, incalzante sulla macchina da scrivere. A volte gli faceva anche da fattorina, caricandosi sulla schiena il peso dei faldoni di giornale. Ma il più delle volte restava seduta lì a guardarlo battere e al suo ticchettio del giornalista lei contava i battiti del suo cuore. Quell’aria scanzonata da figlio del mondo l’aveva attratta. O forse quello sbiadito completo beige che tanto detestava, intriso di fumo ed inchiostro. Accadde, però, che la ragazza lo seguisse nell’ennesima avventura lavorativa. Aveva una voce aggraziata ed intensa e seppe come dare supporto ed iniziativa alle ore musicali della radio locale. Avevano imparato a dividere amore e lavoro in quantità industriali. La stessa aveva imparato a competere con gli scansafatiche che volevano appropriarsi dell’emittente per un riconosciuto diritto lavorativo. Come le ripeteva suo padre, nelle trattative, come con gli uomini, era necessario usare “carota e bastone”. E le donne della sua famiglia avevano imparato prima a metterla in pratica e poi depilarsi quando necessario. Dieci bei giovanotti, un giorno, si accamparono, in protesta, nel cortiletto della sede della radio. Volevano occuparla. La ricciola, che forse nascondeva in ogni ciocca il segreto della forza, aveva preso le scale insieme ad un collega per affrontare la piccola folla urlante e pretendente. Alla fine le buone ragioni sostenute dalla gentilezza avevano avuto la meglio sulle pretese dei ragazzotti. Complice della sua determinazione una breccia di follia.  Poi all’ombra di una trasferta d’inverno, tra blocchi di formazioni e fischietti arrugginiti, che sentii il richiamo dei riccioli. Venni scortata da mani dipinte di blu verso una casa bianca. Note acquatiche fluttuavano nell’antro materno a farmi festa.