Ricordando odori

Negli esercizi estremi di memoria, che a volte mi provo a fare, ho cercato di trarre dal magma ignoto dei ricordi tutto ciò che può aver coinvolto l’odorato nei primi anni della mia infanzia. Dietro queste prime esperienze monosensoriali, si sono evidenziati, man mano, quadri di vita che avevo perso.
Avendo vissuto questo periodo su di una collina, a Serravalle Scrivia, per via della fuga da Genova a causa dei bombardamenti alleati, sorge  naturale che prevalgano gli odori agresti. Odori intensi come quello del letame nelle stalle, con i vapori di ammoniaca che salgono su per il naso a farti lacrimare e ti allarmano il piede che teme il contatto.
L’odore del fieno fresco, in fermentazione, da portarselo nei panni sino a sera, dopo capriole rissose, stanchi di riso e di pugni. Il pane appena sfornato sul tavolo di cucina al mattino: un odore caldo, quasi dolce che dava l’acquolina in bocca, imponendoti una minima attesa.
Ricordo quel tavolo, nero di mosche. (il D.D.T. sarebbe venuto dopo, con gli
americani). Papà apprestava la colazione, facendola precedere con la cacciata
delle mosche dalla finestra aperta, agitando un tovagliolo. Il nastro giallastro e polveroso della carta moschicida scendeva, accanto al filo dell’unica lampada, dal soffitto.
L’odore della latrina nell’orto, nauseante e insopportabile ma obbligatorio. Sciami ronzanti di neri mosconi famelici.
L’odore dell’albero di fico, sotto il sole d’agosto. Un odore avvolgente, dolciastro, colloso come il lattice bianco che colava dal ramo ferito.
L’odore delle viole, cercate con zia Maria nel declinare umido e ombroso del fitto bosco delle Fate. Un odore nobile, inconsueto, ammaliante come l’intenso colore.
L’odore della lavanda ‘Col di Nava’ di papà che, di prima mattina, si faceva la barba sul tavolo di cucina, usando un piccolo specchietto dalla cornice celeste. Quante volte ho assistito a quel rito con rinnovata meraviglia.  Il gioco dei muscoli del volto di papà per assecondare la lama. Dargli un bacio era rubargli un po’ di quel profumo, intenso.
L’odore dei bossoli della mitragliera, fiutato con timore ed orrore al fine  degli scoppi della battaglia.
L’odore del sapone fatto in casa da nonno Angelo, bollendo ossa e calce in
un nero pentolone: un sentore disgustoso, tanto che per lavarmi mi dovevano rincorrere tutti.
L’odore della neve, lieve e pungente come il suo sapore. Mamma la raccoglieva dal davanzale  nel bicchiere: una goccia di dolce caffè e nasceva una delizia per il palato.
L’odore del fulmine. Quando si usciva dal portone di casa tra l’ultima pioggia e i raggi brillanti del sole. “E’ ozono, senti ha il sapore di una lama” mi spiegava papà.
L’odore delle bionde trecce di Cristina, prima bimba apparsa nella mia vita. Una visita dei genitori, su alla nostra villa, un tramonto.  L’albero di lillà era in fiore. Tirammo fuori le vanghe dei contadini, cercando di costruire una galleria che potesse unire le nostre
lontananze.
Beata, stupenda, tremenda, ingannevole infanzia.