Ricordi di giovinezza

Lo cercava. Lo cercava di tanto in tanto, fisicamente, adesso che il Web concedeva di porre un nome ed un cognome su google o facebook e tentare di collegarlo ad un volto, ad una vita era divenuto possibile. Lo cercava nel ricordo. Ma forse era una caratteristica dell’età: ricordava che sua madre aveva fatto lo stesso con alcune persone della sua giovinezza, ossia cercarle, con il pensiero e dirsi poi: “Quanti anni avrà adesso? Settanta! Sarà vecchio. Forse sarà morto”. Anche sua zia aveva fatto il medesimo pensiero: “Eravamo bambini, giocavamo assieme a Marianella. Lui era alto e snello, forse mi veniva dietro, ma mia madre mi aveva detto di stare attenta agli amici, che possono essere pericolosi. Si chiamava Vittorio, che fine avrà fatto? Aveva due anni più di me, adesso ne avrà… sarà vecchio. Sarà morto…”. Anche lei, zia Irma, le stesse riflessioni appartenute alla madre e che adesso faceva lei: “Angelo. Che fine avrà fatto?”. L’ultima volta l’aveva visto di passaggio, in via Roma, in Napoli. Lei era con il giovane marito di cui, innamoratissima, soffriva però il carattere difficile, le asperità. Uscita per un poco di distrazione tra pannolini e biberon, già mamma a ventitré anni di una dolce cuccioletta ed ancora sofferente per l’improvvisa morte del padre avvenuta da poco, per il trasferimento in un territorio nuovo, lontano dalla sua città, provava a vivere il meglio possibile. Lei, dunque, l’aveva visto passare in mezzo alla folla variopinta, lui, sì, certamente lui, con il sacco in spalla, assieme ad un paio di ombre maschili giovani anch’esse, faceva l’autostop in una strada che all’epoca era ancora trafficata dalle automobili. Lui doveva avere allora, quanti anni? ventisette, ventotto? Qualche anno di più di quanto avesse lei stessa, come sempre era stato.
L’ultima volta, in assoluto, che l’aveva visto fisicamente.
Con il pensiero invece… Già: il suo primo amore, quello impossibile. Molto più impossibile di quanto avesse creduto quando l’aveva vissuto: “Angelo è ambiguo”, le aveva detto la sorella di lui. Dalla profondità degli anni le tornava il ricordo di quella telefonata della lei di tredici, o quattordici anni con la sorella di lui. Quella ragazzina adulta che era la se stessa di allora però, non sapeva nulla di gay, di froci, di omosessuali. Nulla. Come poteva comprendere, quindi, quale fosse il gentile messaggio che le proveniva dalla cornetta, all’epoca nera, del telefono? Pure qualcosa doveva avere colpito nel suo intimo quel tentativo di messaggio se ancora adesso le rimbalzava al presente dal suo passato. I bambini ed i ragazzi sono come dei registratori accesi: tutto ciò che viene registrato, anche se non compreso, ritorna nel futuro e trova spesso una spiegazione che all’epoca del vissuto non era stata possibile. Di quella sorella di Angelo, appena un po’ più grande di lei, ma certamente al corrente di cose che lei non sapeva, non le ritornava altro. Non erano state amiche, ma, al momento in cui lei stessa, ragazzina di quattordici anni, aveva chiesto di parlare con il fratello, quella sorella, più grande di lui, doveva avere sentito la necessità di porla in salvo, benché non si frequentassero, di farle capire che:”Angelo è ambiguo”. Ma la piccola ragazzina innamorata non comprese e neanche indagò con un: “Che cosa vuoi dire?”. Troppo innocente la vita delle ragazzine come lei nel 1963. Ignoranza, non innocenza, le caratterizzava. Proprio ignoranza. Pericolosa e contemporaneamente dolcissima. Quell’impermeabile d’innocenza di cui lei, scrittrice, avrebbe parlato poi nel suo romanzo “Quel magico mondo lontano”. Più tardi, molto più tardi, suo fratello Leonardo le avrebbe detto:” Lui non veniva per te a casa, veniva per me”, in tono di sfottò. Chiaramente non perché a lui, Leonardo, interessasse Angelo, ma perché al tempo, “tra uomini” si sapeva che ad Angelo, le donne interessavano poco. Gli uomini capivano di più anche nel 1963 ed in ogni caso Leonardo aveva sette anni di più di lei, ossia era coetaneo del “suo” Angelo. Ciò non toglie che, nel salotto della loro casa al vomero, durante i balli che si tenevano settimanalmente, Angelo le avesse “fatto la corte”. Lei era una slanciata e biondo‐rossa giovinetta di tredici o quattordici anni e, nei primi momenti, non si era per nulla invaghita di quel giovane diciassettenne licealista classico. Alto (?), snello, affascinante sicuramente, figlio di un pilota. Colto come uno studente di liceo classico poteva essere al tempo. Ma di questo lei, piccola studentessa d’arte, non poteva ancora rendersene conto. Ricordava la prima brutta figura della sua vita, quella che le aveva insegnato a non dire mai “sì, lo conosco”, a meno ché non fosse davvero così. Dunque:
‐“ Hai letto Fitzgerald? Ti piace?”‐ e lei aveva ricordato vagamente un nome: Ella Fitzgerald, di cui non sapeva nulla di più di quanto potesse sapere allora di Scott Fitzgerald, per cui, non volendo fare la figura dell’ignorante, la fece in pieno rispondendo: “Si, Ella!”. Un momento di sconcerto e di silenzio da parte del suo interlocutore le permise di comprendere come qualcosa non fosse andato a segno nella sua risposta. Quel momento le restò dentro tanto a lungo da farsi ricordare al momento in cui lei, appena un po’ cresciuta, di Scott Fitzgerald aveva letto tutto il leggibile, per cultura personale. Allora, soltanto allora, comprese, e decise che mai, mai, mai, in un qualsiasi futuro, avrebbe detto di conoscere qualcosa o qualcuno di cui non fosse più che certa. Divenne la donna dei: “Conosci “questo”?”.‐ “Non molto, oppure, non abbastanza, oppure no, parlamene”.  In quei mesi della sua prima giovinezza Angelo era diventato il centro della sua vita. Dall’indifferenza per lui, così come può accadere con i sentimenti, passò ad un amore totale, destabilizzante, vano, sconcertato, irrisolvibile. Lui, quello che l’amico comune Arturo, aveva descritto come “innamorato di te”, perse per lei l’interesse non appena ricambiato. Come conseguenza di ciò lei aveva perdutamente persa la logica per lui: sfuggente, che appariva e scompariva nella sua vita come un fantasma, parlava poco, le faceva leggere poesie dedicate ad un’altra (?), altro (?), in perfetto stile da allievo del liceo classico vicino al diploma, in cui lei, soltanto anni dopo, avrebbe riconosciuto una scopiazzatura di Leopardi o un altro romantico, male interpretato. All’epoca però lei, che pure già scriveva da anni poesie, non vide che la prova dell’amore di lui per un’altra (un altro), e ne soffrì.
Lo perse di vista. Divenne scontrosa, piangeva stupidamente e nascostamente nel vederlo di sfuggita in strada, cadeva in mutismi, qualche volta era intrattabile ma, fortunatamente, il ricordo le dice che, anche, visse pienamente la sua vita di ragazzina, quasi donna, con simpatie, amicizie sentimentali, crescita culturale, espressioni artistiche in pittura e nei primi scritti.
Lo rincontrò una sera, per caso, in un Club del Vomero che lei, assieme ad un gruppo di ragazzi, aveva “creato” in uno scantinato. Ne ricordava il “soffitto a cassettoni”, ricavato dai contenitori in cartone, per il trasporto delle uova; (all’epoca i giovani si accontentavano di poco!). Quella sera (si era nel 1965?), vi si era recata con un amico caro, che le “faceva la corte” sì e no. Amico di fiducia, visto che la madre le aveva concesso di andare “a ballare”, assieme. Ma, nel buio allora fumoso del Club, vide “lui”. Lui le si avvicinò, ballò con lei e le fece dimenticare l’amico con cui era giunta. Le propose di riaccompagnarla a casa e lei, con estrema crudeltà, o, almeno, villania, avvertì l’amico Pino che sarebbe rientrata con Angelo. Lui la scusò, lei rientrò con Angelo ed Angelo, di nuovo, scomparve.
Alla luce dei fatti, anni dopo, si rese conto dei motivi psicologici che potevano spingere quel giovane uomo di buona famiglia, pur compreso della SUA verità, a tentare approcci con lei: brava ragazza di buona famiglia, con cui si poteva sperare una vita “normale” che il suo istintivo interesse per il proprio sesso, non gli avrebbe mai concesso. Specialmente in quei tempi in cui la parola “omosessuale” era pronunciata a livello di “frocio”, a bassa voce. Troppo bassa perché le sue orecchie di femminuccia potessero udire. Comunque si rividero. Adesso lei non ricorda in quale situazione, qualche mese dopo. Uscì con lui nella villa comunale di Napoli, mano nella mano e si scambiarono persino un bacio (castissimo). Sedettero su di una panchina e lui le mostrò una foto. Lo ritraeva assieme ad un amico. (!) Poi le raccontò che era stato espulso da una colonia maschile, dove faceva l’educatore, o, forse, semplicemente controllava i ragazzi, regolarmente pagato. Oggi la lei, adulta, si chiede perché la fanciulla di allora non si domandasse le ragioni di quell’espulsione, il perché del fatto che egli sentisse il bisogno di raccontarglielo ed aggiungere: “Mio padre si è tanto arrabbiato con me che mi è venuto a prendere senza dirmi una parola, ha caricato i bagagli in auto e mi ha depositato a casa dei nonni a Frosinone, sempre senza una parola”.
Buon Dio! C’era da chiedergli: “Ma cosa avevi fatto di così terribile?”.
Invece no. Lei non chiese, ma, evidentemente, qualcosa di strano penetrava lentamente nel suo animo giovane ed inesperto. Fatto sta che, quando si rividero, lei aveva fatto una cosa davvero particolare per le sue abitudini: si era tagliata i capelli “alla maschietto”. I suoi lunghissimi e folti capelli dorati. Cosa che fece poche volte nella sua vita e, sempre, in momenti di grave crisi. Lui quasi non la riconobbe. Evidentemente non gli piacque quella novità. Forse la rendeva troppo simile ad un maschio? Nel corso della passeggiata che fecero, lei gli chiese finalmente perché si comportasse in modo così strano. Perché non fosse comunicativo e trasparente. Le parole usate non furono proprio queste, ma il senso sì. Lui rispose, a monosillabi, come sempre:‐ “Non mi fido”. Lei ribatté: “di me?”‐ “No: di me”.  Lei tacque. Non comprese. Era proprio una stupida giovinetta sedicenne di troppo tempo fa. Comunque lui le propose di “fidanzarsi” e, lei (questa è la cosa più stupefacente, visto che era cotta di lui), disse di no. Lo amava, sì, ma “qualcosa” di lui non le tornava giusto. Non capiva. Così disse “no”, e lui accettò la risposta in silenzio, senza reazioni apparenti. Non si videro più.
Ecco: una storia che, alla luce del tempo, lei si era spiegata. Una sofferenza sconcertata che si era portata dietro tutta una vita e, forse, aveva segnato anche i suoi “amori” successivi. La tendenza alla sofferenza, all’accettare situazioni in cui viveva infelice ed innamorata. Oggi no: oggi, alla sua bella età di sessant’anni, non capisce come quella se stessa del passato avesse accettato un amore troppo vicino alla sofferenza, praticamente impossibile. Oggi ha imparato che l’amore deve essere complicità, consuetudini, comprensione, sesso affiatato e tanto altro. Anche un pizzico di sofferenza, perché questo è parte della vita, ma non sottomissione, accettazione passiva, dimenticanza di sé.
Oggi, dunque, mutata, girovagando sul Web, alla ricerca del “che fine avesse fatto” quell’Angelo caduto, ha trovato su Facebook un Angelo che certamente non é lui, ma avrebbe potuto esserlo: un uomo magro, fotografato di profilo, con lo sguardo assente, un cappello di paglia sulla testa a ricoprire dei riccioli bianchi e grigi, gli occhiali… e il volto vecchio di un settantenne che non porta bene i suoi anni. No: non era detto che fosse proprio lui, ma avrebbe potuto esserlo. Dunque: era comunque evidente che il giovane dei suoi ricordi, magro, muscoloso, con gli acuti occhi dal colore che non ricordava ed i capelli a riccioli di un bel castano dorato, non c’era, in ogni caso, più. Come non c’è più la giovane donna ingenua e dolcissima che era stata lei e che mai avrebbe voluto essere di nuovo. Cicerone diceva, nel suo “De senectude”, parlando della vecchiaia ed enumerandone i presunti danni che le si potevano ascrivere:‐“In realtà, quando riassumo (la questione) nel mio animo, trovo quattro ragioni per le quali la vecchiaia appare infelice: la prima, perché allontana dalle attività; la seconda, perché rende il corpo più debole; la terza, perché priva di quasi tutti i piaceri; la quarta, perché non è molto lontana dalla morte. Di tali ragioni, se vi aggrada, vediamo ora quanto sia fondata ciascuna. VI. La vecchiaia allontana dalle attività – Da quali? Da quelle che si compiono in gioventù e con le energie? Forse non ve n’è nessuna senile che, anche col corpo debole, si possa tuttavia esercitare con la mente?”.
Fermiamoci qui. Il nostro Cicerone, cui non fu consentito invecchiare, in realtà concedeva alla vecchiaia il grande merito di permetterci una competente serenità di giudizio, lontana dall’accesa sofferenza che la giovinezza ci offre nell’ardore per le cose del mondo, primo fra tutti l’amore.
Certo, resto convinta (per averlo scorto in tanti, per averlo letto nei libri e nella cronaca), che “la serena vecchiaia” (non mai vissuta dal povero Cicerone), non sempre e non a tutti porti la capacità di vivere con maggiore giudizio e senza gli affanni dell’ardore giovanile. Ma per quanto mi riguarda è davvero una cosa liberatoria, in molti sensi. Un periodo, il mio, non proprio vissuto “da vecchia”, ma neanche più nell’ignoranza sofferente che ha caratterizzato la stagione giovanile, quello in cui “vivo” e “vedo” più distintamente le cose del mondo e della mia stessa vita. Addio dunque alla sofferente innocenza della giovinezza, agli “angeli caduti” chissà dove, dico a me stessa, serenamente. Fuori c’è uno splendido sole, nel mio studio di pittrice attende sul cavalletto, perché la completi (con la sfida di farla mia) la copia ad olio della “Ragazza alla finestra” di Salvator Dalì, il mio fisico è ancora attivo e così la mia mente: che brillante stagione la maturità! Peccato duri poco.