Ritorno a Villa Adela

La salita, dopo settant’anni, è la stessa, ripida, difficoltosa al passo. Ora è asfaltata. Papà, slacciata la cintura dei pantaloni, la lega alla parte posteriore dell’automobilina e frena l’abbrivio della mia discesa.  Una parete di verde mi porta al cancello. “Villa Adela”, un insegna di marmo nuovo. Ancora mi stona quel nome, nella mente, che già d’allora non legava alla sonorità di Adele, il nome della nostra cameriera. La vernice del cancello è fresca di tempo. I cardini oliati hanno perso il canto del ritorno di papà dalla guerra. Sento ancora quel suono di immensa felicità. Correre ad affacciarsi alla balaustra, e vederlo laggiù, che ci saluta con la mano, un valigione di cartone marrone. Il viale, verde di ippocastani, si confonde in una macchia scura nel gomito, che sale a sinistra, in un’ultima rampa, alla villa, che non scorgo ancora. Un faretto e una telecamera fanno da guardia al cancello. Suono al citofono senza nome e attendo. Nessuna risposta. Faccio una foto al viale, posando la macchina fotografica tra le sbarre del cancello. – “Che sta facendo lei, chi le ha dato il permesso? ‐ “ Un ometto, in una camicia a quadri, è apparso e avanza verso di me a passi ampi. Il volto è contrariato. Apre il cancello e la mano cerca di afferrarmi la macchina fotografica. ‐ “Mi faccia vedere cosa stava fotografando?” ‐ Ci metto parecchio a spiegargli, che sono un bambino di settant’anni che viene a rivedere i luoghi dell’infanzia. Lo sento diffidente. Vorrei lasciare tutto lì e andarmene, ma i ricordi mi chiamano. Acconsente, a malo modo, a farmi salire sino alla villa. A metà viale, ci viene incontro la moglie. Guarda me e il marito con un volto dubbioso.  Ora si libera la curva e vedo villa Adela. Irriconoscibile. Il fine ottocento è mutato, in un palazzotto modernizzato dal pessimo gusto. Un patio pseudo messicano, aggiunto di recente, ne protegge l’entrata. Il ciliegio dalla neve di petali, in primavera? ‐“Lo abbiamo abbattuto. Era troppo vecchio e malato” ‐. Dalla balaustra, sconnessa, da cui mi affacciavo nella valle, vedo mamma e zia che corrono disordinatamente, gridando, nella neve alta. Un caccia inglese sta giocando con loro, al gatto e il topo. Scende basso su di loro, quasi a sfiorarle, poi risale, rombando, il declivio del monte. Ritorna, scivolando in una picchiata d’ala. Scorgo il volto del pilota. Ma che fa? Ride? ‐ “Le sta corteggiando” ‐ qualcuno alle mie spalle.  Una lastra di marmo con un ampio foro circolare è adagiata alla parete dell’entrata. ‐ “La riconosce? Ci siamo rammodernati.” ‐ Quante volte mi ci sono seduto su quel buco nero, io, timoroso. Una vertigine infinita, sino al pozzo nero, nel gabinetto sospeso nel vuoto, sulla parete posteriore della villa. Entro, a destra, la cucina ha perso tutti i caratteri di un tempo. L’inferriata alla finestra non c’è più. Me la fecero coprire col mio corpo, quando il tedesco che svolgeva il cavo telefonico, si avvicinò per guardare dentro. Un lenzuolo bianco, steso internamente, attraversava in diagonale la cucina, evitando gli sguardi a salami e prosciutti appesi ad asciugare. Tonio, il mio amico maiale, era finito lì. A destra il salottino in vimini ha la porta chiusa. Lo stato maggiore delle SS, ne aveva preso possesso. Di sera sentivamo i canti attorno al camino. Io aspettavo il piatto di bianca pasta, che mi porgevano, quegli esseri biondi, giovani, sorridenti. Erano miei amici. La vetrata delle scale, manda raggi di sole. Il suo frantumarsi in briciole di vetro, al bombardamento sul vicino ponte dello Scrivia. Il ratatàtà delle bombe, che scendono urtandosi. Quel suono metallico, uno scampanellio di morte, che pochi conoscono. Vado via, ora. Il diffidente padrone della villa ha avuto notizie, che non conosceva, della sua casa, da un bambino, dal volto di vecchio.