Rose vinate

Mai stato un gran bevitore, mio padre. Poco ma “buono”: il suo bicchiere di rosso (due mezzi bicchieri in realtà, non amava farlo colmo ogni volta) ai pasti, versato dal classico fiasco impagliato. Il nostro abituale vinaio li portava in una lunga cesta intrecciata a mano, conteneva due fiaschi prima e due dopo il manico; ansimava quand’era arrivato a casa nostra, di frequente toccava a me aprirgli il buio vano dove veniva custodita la nostra piccola provvista. Dopo la scampanellata seguiva l’immancabile affacciarsi dalla finestrella di cucina per scorgere, prima d’aprire, chi aveva suonato: “C’è i’ vvinaioooo! Chi gli apreeee?” gridava la nonna affaccendata in qualche mansione che non poteva lasciare, fidando nel fatto delle altre due donne adulte, più cinque ragazze di varie età, presenti in casa. “Va bene, vo’ io” mi offrivo, spesso era il pretesto per smetter di studiare e sgranchirsi un minutino le gambe. Qualche volta invece il vino s’era preso dal produttore o si riusciva a trovare un bottegaio volenteroso che ci recapitasse a casa le damigianine; abbastanza di rado, dato che era faticoso portarle all’ultimo piano di quel palazzo antico, in centro, c’era anche la scala interna per arrivare al sottoscala che faceva da ripostiglio e da dispensa per pochi generi alimentari: giusto l’olio “del contadino”, lattine di pomodori pelati più qualcuna di pesche sciroppate, il vino. In quel caso lo s’infiascava in casa, travasando proprio sul pianerottolo di queste scale interne, liquido rubino nei gloriosi fiaschi toscani. Triste il momento in cui la paglia, che del vino s’imbeveva sempre un po’ effondendo in piena città un profumo da fresca cantina campagnola, venne sostituita da quella rete in plastica avorio sporco, stretta attorno alla verde pancia trasparente; pareva una guaina contenitiva che cercasse sminuire le trippe debordanti d’una massaia sovrappeso.

Comunque, nei fiaschi o più raramente nelle bottiglie bordolesi (qualcuna si teneva, “in caso venisse qualcuno”) si metteva sempre in cima un giro d’olio, prima di tappare col sughero. Era una sorta di rito anche il togliere l’olio dal collo: si ficcava giù coll’indice un ciuffino di stoppa, quella che ancora usano certi idraulici, la si toglieva una volta ben inzuppata; ma prima di portare in tavola, c’era un gesto deciso per “sboccare” le gocce dell’ultimo residuo oleoso sporcato d’ametista nel lavandino di cucina.
La mia casa non era mia, eravamo in affitto dall’Opera del Duomo, lo siamo stati per cinquant’anni. Ci vivevamo in tanti, una società matriarcale dove dopo la morte del nonno due uomini solamente (mio padre e suo cognato, lo zio materno) erano circondati da presenze femminili: mogli, sorella, figlie, suocere. Casa spaziosa, piena di luce, su due piani; un labirinto di camere, ripostigli, anditi, due salotti, un bagno grande e due piccoli gabinetti. Due terrazze distinte: “la terrazza su” e “la terrazzina in fondo”. In quella “in fondo” (inteso come il fondo del salotto al piano superiore) si faceva la carne alla brace o stendevamo; ci s’immetteva da una tripla serie di porte: un pannello antico intagliato e dipinto copriva una coppia di battenti che celavano un’altra porta in legno e vetro, chiusa da un palettino. Alla “terrazza su” si accedeva dal solito salone ma da una sola porta. Si saliva sui tetti come sospesi nel vuoto, poi alcuni scalini in muratura, una sorta di tasca dov’era alloggiato un alberello di lilla, altri scalini: ecco la cannellina con la “sistola” per annaffiare, comoda quando ci stufarono pentolini vecchi e pesantissimi annaffiatoi.
In terrazza, per metà ombreggiata da piante di vite canadese, fiorivano gerani, giaggioli, margherite, canne indiche e salvia splendida, fior d’angelo e due piantine di rose nane portate dal babbo e lo zio. Avevo assistito con curiosità allo svolgerle dal pane di terra che metteva a nudo le radici, al trapianto in una conca rettangolare. Mio padre mi aveva mostrato gl’involucri, foto multicolori di come sarebbero venute su una volta fiorite. Un tipo, a boccio chiuso era color salmone; una volta aperto si rivelava gialla orlata di toni dall’albicocca al rosso. Le altre erano rosso scuro, sfumature vellutate da parere nere, il profumo intensissimo. E sapevano di vino! Aromatico, pungente: “Senti qui, senti qui che profumo…!” Mi pare rivederlo mio padre chino sulle pianticelle ad occhi chiusi, espressione di voluttà mentre aspirava con piacere la fragranza delle sue rose “vinate”. Già, perché la cura della terrazza e dei fiori era appannaggio dei miei, era il loro giardino pensile, evasione dai momenti lavorativi, pretesto per spazi di quiete (“O il babbo e la mamma dove sono?” “Eh, son su in terrazza!” e con questo basta, raramente salivamo proprio in quel momento a condividere le fatiche delle potature, dei rinvasi, delle concimature e gli esperimenti. Dopo aver letto che per ottenere fiori di geranio più forti e grandi si doveva una volta annaffiarli col latte e la volta dopo col vino rosso i miei provarono anche questa soluzione, e funzionò!)
A S. Giovanni, invitati gli amici, salivamo per vedere i “fochi”, anche se in realtà si doveva stare in piedi tutti ammonticchiati in un angolo, l’unico da cui si vedevano i più alti, a volte i bagliori delle girandole. Però nella notte s’intensificava il profumo spesso e vinato delle piccole rose, e il fatto d’avere proprio alle spalle la mole della Cattedrale era eccitante perché “i botti” erano amplificati e raddoppiati. Dopo lo scoppio iniziale…. un istante e alle nostre spalle esplodevano dei veri boati tipo cannonate: “Booommm! Booommm!” ti squassavano tutta, li sentivi in petto e in gola, tremavano polsi, gambe, fantastico!
La “terrazza su” serviva anche da pretesto per chi non aveva i mezzi per andare in vacanza, o per prendere un po’ di colore in attesa della sospirata partenza. Bastava stendersi, respirare a occhi socchiusi immaginandosi invece che accanto a piazza Duomo immerse nel salmastro di qualche bella località balneare o, tra l’intensissima fragranza delle roselline, di esser state a prendere un gelato sulla passeggiata a mare. In realtà (appena stufe di arrostirci sui tetti) dopo la cauta discesa dalla scala traballante e il rientro nell’ombra fresca del salotto, ci si precipitava in cucina a bere acqua “fatta con le polveri” o con una strizzatina di limone, a mangiare ciliegie cotte fredde, una coppetta di fragole nel vino zuccherato. Una delle poche volte in cui il vino mi piaceva. Sebbene fosse in tavola ogni giorno non ero abituata a berlo, come invece mia sorella. Quando per merenda si tagliava una spessa fetta di pane, la s’inzuppava d’acqua per poi spruzzarla di vino e spargerla di zucchero non mi entusiasmavo; preferivo assaggiare il vino “coi grandi” quando veniva in visita qualcuno, la liquorosità del vinsanto in cui inzuppare i cantuccini, sgranocchiare le mandorle imbevute del vino della Santa Messa. Allora scoprii che mi piacevano di più tuffati nel rosso dell’Aleatico o del Morellino, ma in casa li acquistavano di rado.
Proprio oggi parlavo a mia figlia del suo nonno amante delle rose, di quando ne portava al lavoro, un semplice bicchier d’acqua e spandevano la meraviglia del loro profumo nell’officina buia, le annusava rapito mostrandole ai clienti con orgoglio “Son delle mie!” Camminando verso casa molti giardini fiancheggiano il percorso; le additavo varie specie di piante parlando della terrazza che lei non rammenta, così come i volti di cari venuti a mancare troppo presto perché se ne conservi da soli l’immagine ……Mantiene il loro ricordo guardare fotografie, raccontare, farle aspirare un odore per consentirle di immagazzinarlo nella memoria. Dirle, cercando di non far tremare nella nostalgia la voce: “Ecco, senti, senti qui che profumo: questa è la fragranza delle rose della terrazza dei nonni. Le rose vinate!”