Un amore al crepuscolo

Un amore nebbioso, umido, di flebile lucerna a petrolio. Un amore che sa di minestra di verdure e cucchiaio di legno. Amore vestito di lino consumato, reso liscio dagli anni, scolorito dal tempo.
Questo ho trovato, alla fine della mia strada. In un borgo infossato in un canalone, tra le colline di una regione scoscesa e ostile. Il selciato deformato, come fosse quasi pasta di pane, dai secoli di passi lenti e pesanti. Lo scrosciare dell’acqua, giù per le gore, tra le radici degli alberi.
I muri delle case ormai deserte, screziati di muffe verdi, intonaci marroni, rattoppi grigi e porosi.
Mai avrei pensato, immaginato, di fermarmi qui, tra le braccia di una donna ormai matura, come me avanti negli anni, come me rimasta indietro nella vita, al di fuori del tempo.

Sono giunto al piccolo paese fantasma, in una notte di Autunno. Il vento scomponeva il paesaggio, alberi, foglie, versi di animali notturni, stridii di infissi antichi e malfermi, tutto si spezzava e si sovrapponeva al mio viaggiare irriverente e abbandonato.
Fuggivo dalla mia città, dal mio passato, dalla mia stessa identità. Un’intera vita di illusioni e delusioni scrollava sulla mia anima la polvere oscura del fallimento, da sempre.
Potevo solo fuggire ormai, e andare incontro alla morte, alla fine di tutto, di me stesso. Mi arrendevo alla mia incapacità, senza più cercare colpe e demeriti. Ero soltanto un uomo, ormai di mezz’età, eppure ancora fragile e ingenuamente idealista, come un adolescente aberrante.

La porta della locanda, come non ne vedevo dall’infanzia, o forse che avevo visto soltanto al cinema, o nella mia immaginazione, era di assi consunte e sconnesse. Il pavimento di legno vecchio richiamò alla mia mente l’odore e l’immagine di un incrongruo baretto, nel giardino dell’infanzia.
Entrai a capo chino, come si addice a un fallito, a un oscuro fuggitivo, reietto dal mondo, senza speranza di trovare più un luogo dove vivere.
Mi credevo di passaggio, in quel tenebroso borgo antico, abbandonato ormai, quasi disabitato.
Trovare una locanda, di così antica struttura, mi sorprese. La decadenza dell’edificio, la ruvidità dell’arredamento e dell’odore di cavolo bollito e carne arrostita alla fiamma, erano specchio preciso al mio sentire, a tutto il mio essere espulso dalla realtà.

Lei mi guardò da dietro il bancone, di legno pesante e scuro, levigato da vite intere di strofinii. I capelli raccolti in una crocchia, il camicione bianco, largo e pieghettato, sulla grande gonna di panno scuro, umile, grezza e pulita, profumata di lavanda. Si asciugò le mani, forti e disarmate, nel grembiule a fiori. Il suo viso era solido, dagli zigomi alti, arrossati dal calore della cucina. Gli occhi, neri e profondi come una notte infinita, mi guardarono e piccole luci ammiccarono lontane, dalle profondità della sua anima antica. Accennò un sorriso vedendomi, il petto abbondante le si alzò, in un respiro di sorpresa. Non so come apparissi al suo sguardo di donna matura e piacente, grassa e generosa, di poche parole e di grandi sentimenti.
Mi servì la cena al tavolo più piccolo, nell’angolo vicino al camino acceso. Mi riscaldavo alla fiamma e al cibo semplice, d’altri tempi. Portò la scodella di minestra, il pane, il vino, la carne arrosto e le verdure. Non c’era nessun altro nella locanda, il vuoto del mondo riempiva i nostri silenzi, i nostri sguardi, le nostre poche parole, dette a filo di voce, come temessimo di rompere un fragile incantesimo.

Vivemmo insieme i nostri anni della maturità, e poi della vecchiaia, in quella casa isolata. Nessun altro giunse mai più alla locanda, nessuno disturbò i nostri cuori innamorati, esausti del mondo. Di giorno il sole percorreva il canalone, accompagnando le nostre ombre nei semplici e umili lavori di campagna. Di notte il vento e le piogge cullavano le nostre anime assopite, in attesa di scoprire cosa ci fosse dall’altra parte della vita.