Un pomeriggio di girasoli

Qualche giorno fa è arrivata una tua chiamata. Non chiami mai, mi sono detto, se chiami hai bisogno di aiuto perché aspetti che siano gli altri a farlo. Le tue sorelle, i figli, gli amici. Lo sappiamo tutti, se vogliamo sentirti dobbiamo essere noi ad alzare la cornetta. Ce lo dicevi sempre quando eravamo piccoli, lasciate che siano gli altri a cercarvi così siete sicuri di non disturbare.
Non disturbare, il tuo terrore più profondo anche adesso, che hai quasi ottantadue anni, è quello di non fare rumore. Saresti capace di andartene così, penso ogni tanto, in silenzio. Senza dire una parola.
‐ Come stai? ‐ mi hai chiesto.
Però, conoscendoti, non ho riposto alla tua
domanda.
‐ C’è qualcosa che non va? ‐ ho replicato.
‐ Ma no, niente. È un po’ che non ci sentiamo e volevo solo sapere come
stavi.
Terminata la chiamata ho mandato un SMS a Michele e Vanessa. Questo
weekend andiamo a trovare la mamma? Michele aveva un impegno con i bambini, Vanessa un appuntamento con un’amica e allora ho lasciato perdere. Non ho insistito. Aspetto il fine settimana e parto da solo, mi sono detto.
È Luglio e fa caldo, in macchina non accendo l’aria condizionata, appena fuori dalla città tengo il finestrino abbassato sulla natura che porta verso la campagna, come dici tu, in mezzo al giallo dei girasoli. A volte mentre ci si aggancia ai ricordi vengono in mente cose che pensavamo di avere dimenticato. Di fatto, però, sono cose che ci accompagnano per tutta la vita perché fanno parte di noi.
Quando arrivo sul piazzale di casa i ricordi si fanno più vividi, infanzie rumorose rimpiazzate adesso dalla solitudine di un’erba che cresce senza essere calpestata da nessuno.
Suono il citofono, apro la porta chiusa senza chiave e chiedo ad alta voce: ‐ Si può?
Non entro completamente, aspetto sull'uscio una risposta perché ho paura di invadere i tuoi spazi.
?
Ancora adesso, che sono un adulto che non dovrebbe chiederti il permesso, busso alla tua vita con discrezione, come mi hai insegnato tu, con la premura di non disturbare.
La tua voce arriva limpida e vivace dalla cucina.
‐ Vieni avanti tesoro, che cosa ci fai qui?
Sei sempre la solita, tiri fuori l’orgoglio, distribuisci domande che vogliono
dirmi non ho bisogno di niente.
La casa è sempre in ordine, oggetti puliti e sistemati in modo maniacale al
loro posto come se fossero in attesa di qualcuno. Le foto, sulle mensole della libreria, testimoniano quel passato chiassoso che adesso sembra essere troppo lontano.
‐ Sono passato a cercare dei libri in soffitta che devo avere infilato da qualche parte.
Mento. La verità è che mi fa piacere passare del tempo con te, annusare quello che siamo diventati, soprattutto adesso che ho la certezza che il tempo sia passato troppo veloce.
Ci accomodiamo in veranda. Sorseggiamo tè verde e con cautela ci concediamo ai ricordi. Parliamo di Vanessa e Michele... di quando ti toccava metterci in punizione altrimenti saremmo stati capaci, insieme, di distruggere il mondo. E mentre parliamo di tutto, tutto diventa più facile. Le ombre del passato si dissolvono nella consapevolezza che ci si ama anche se non si trovano le parole per dirselo. Nessuno ci ha insegnato come si fa, mamma, non è colpa di nessuno.
Poi arriva la sera, e all’orizzonte il tramonto si confonde con i campi di girasole. Per qualche istante, mentre i colori sfumano nel cielo, mi tornano in mente le cose di tutti i giorni. Il lavoro, la casa, le bollette da pagare che ho lasciato sul tavolo all’ingresso. La vita frenetica, quella che corri, corri e non ti fermi mai un attimo a pensare. E mi sembra che la vita sia qui, accanto al tuo viso segnato dal tempo che non ha mai avuto il coraggio delle parole.
‐ Sì è fatto tardi, adesso è meglio che tu vada.
Ti saluto. Un bacio tenero sulla guancia.
E poi, mentre agito la mano fuori dal finestrino, improvvisamente mi sembra
tutto più chiaro.
Guardo i tuoi occhi.
E sono occhi ammalati di solitudine anche se non se n’è accorto nessuno.