Venticinque Minuti

Venticinque minuti.
Venticinque minuti era, in media, il tempo che trascorreva da quando una mano mi apriva per entrare a quando la stessa mano mi apriva per uscire.
Entravano fredde sulla mia maniglia, uscivano scaldate.
Loro non lo sapevano, ma era un calore triste quello che lasciava loro Marinella.
Più loro si scaldavano, più lei si raffreddava.
Il mio legno, forgiato nella porta della sua casa, è il massimo confine tra la vita di questi uomini e il mondo delle loro perversioni.
Entravano soli, uscivano soli. Marinella non li accompagnava mai per una passeggiata.
Dopo un po' di compagnia, era ancora più gelosa della sua solitudine.

Solo con un uomo l'ho vista uscire.
Non facevo in tempo a contare i 25 minuti canonici che loro due erano già fuori, lontano, lontano da me, a lasciarne passare altri mille.
Solo quando mi oltrepassava sottobraccio a lui sentivo il profumo di cui era sempre stata capace.
Vinceva l'odore del solito sudore, della solita saliva di cui i muri erano impregnati.
In quei momenti sforzavo le mie venature ad assorbire, assorbire, assorbire il più possibile la sua essenza di rugiada, di ambra, di muschio, di tutto quello che ti aspetteresti da una foresta in fiore.
La mia Marinella, la mia bestia in gabbia, innamorata di questo ragazzo come io di lei.
La resina è la commozione del legno.
Chissà se se ne erano accorti i due amanti, che questa vecchia porta era rigata di gocce d'oro.
Una cosa che successe è che Marinella iniziò ad uscire da sola, quasi esplodesse troppo di gioia per contenerla in questa casa.
Usciva la mattina, tornava la sera.
L'aria di primavera, vedendola a passeggio, si era impegnava per sovrastare il suo odore, quasi invidiosa.
Lui, la sera, si appoggiava al mio legno, aspettandola.
Così delicatamente come ti appoggi a me, dicevo, appoggiati a lei per sempre
Quando Marinella tornava, quando entravano, non era solo lui a gemere e lei a piangere, come con gli altri.
Erano discorsi, erano baci, erano carezze. Era pian piano sentirli addormentarsi, disperdendo nel sonno le parole bisbigliate di un ultimo racconto.

Marinella un giorno mi ha toccato per uscire.
Tutto il suo profumo aveva una potenza maggiore.
Avrei voluto trattenerla, avrei dovuto trattenerla.
Arrugginire la mia serratura, diventare pesantissima in modo che non riuscisse a spostarmi di un centimetro.

Come sempre, la sera, lui è arrivato e l'ha aspettata.
Quel giorno il suo appoggiarsi, piano piano, mi fece scricchiolare, mi rese cava.
Quel giorno, piano piano, pesava come un'assenza.
La sera si fece presto notte.
Marinella, la mia innamorata folle, non tornava.
E' stato quando l'aria di primavera mutò completamente facendosi più delicata, che ho iniziato a sospettare non avesse più nessuno con cui competere.

Passarono ore prima che lui si arrendesse ad andarsene.
Claudicava, continuava a guardassi attorno, sperando che lei fosse solo nascosta dietro qualche cespuglio.

Lei non è più tornata.
Nessuno più mi ha aperta ed io sono invecchiata.
Ho pregato di invecchiare anche per lei, di portare incise nel legno anche le sue rughe, di modo da lasciarla bella per sempre.
Così, se si fossero incontrati di nuovo, lui non avrebbe avuto difficoltà a riconoscerla.
Per anni, per decenni, io sono stata l'unica cosa che lui ha incontrato qui.
Ogni sera è venuto a bussare. Poteva essere in qualsiasi altra parte del mondo, a vivere chissà che avventure con mille donne, ma era davanti a me e bussava.
La mia resina è caduta a terra. In qualche modo ha concimato dell'edera che ora mi avvolge, sinuosa, quasi completamente.
Un unico spazio libero di legno è rimasto, rotondo come le labbra sorprese di lei quando lo vedeva ogni sera.
Le foglie non se la sono sentita di coprirlo, ed è lì che lui bussa ancora.
E così che si toccano ancora.