Malavuci

Libro "Malavuci" di Antonella Perrotta

Il realismo magico di Malavuci.
Malavuci, secondo romanzo di Antonella Perrotta edito da Ferrari, ci restituisce un contesto, la provincia calabrese dell’entre-deux-guerres, in cui un’illazione assume la connotazione di pettegolezzo, della calunnia che a poco a poco «Le teste ed i cervelli / Fa stordire e fa gonfiar», o addirittura, come accade in Giuè, opera prima dell’autrice, costituisce nella sostanza un elemento probatorio. E parafrasando proprio Malavuci, le parole condotte dai torridi aliti di vento pervasi dalla polvere delle vestigia del paese di San Zefiro, non conoscono alcuna clemenza, nutrendosi d’odio in mancanza di pane.
Le parole, le chiacchiere, esprimono in crescendo la ratio cui ricondurre ogni comportamento: il giudizio della comunità, quanto i cristiani della Sicilia di Impastato abbiano a diri, o il «diserà cosè la zèt», che cosa dirà la gente, nella bergamasca dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, a ciascuna latitudine dell’Italietta delineata da Pasolini sulle colonne di “Paese Sera”, corrente il 1979. Fulcro delle vuci (o segreti condivisi?), le congetture originano da associazioni che rispondono esattamente ai criteri, intrisi di meschinità, posti a fondamenta di una comunità che ancora oppone le cure “scientifiche” del farmacista socialista alle cure “religiose” del picaresco, bonario padre Gerardo o di un parroco piccino: poiché Sasà, uno dei protagonisti del romanzo, si dedica ai fiori, non si accompagna alle prostitute e non molesta le compaesane, è di conseguenza una fimminedda, un omosessuale. Di conseguenza, e soprattutto di necessità, al malcelato scopo di categorizzare l’alterità, che istituisce il legame fra i personaggi relegati ai margini della collettività, quali la prostituta del paese, La Rossa, e Lela la “Forestera”, profuga friulana della Grande Guerra. Un’alterità cui spetterà una per niente metaforica Colonna infame, e che parimenti sospinge Giuè, Ieli calabrese calato nelle atmosfere di Cronaca di una morte annunciata, nella Fiumana.
Con Giuè, Malavuci presenta numerose affinità, a cominciare dallo stile: la prosa serrata e al contempo ordinata, a tratti quasi distesa e cantilenante, ospita frequentemente il dialetto, impiegato nei dialoghi per ricoprire una funzione strettamente mimetica, mentre le costruzioni dialettali incastonate nei bozzetti che compongono il romanzo non contribuiscono al carattere di realismo, al contrario, conferiscono alla narrazione un carattere fiabesco, da Contastorie, come si definisce l’autrice, che di quando in quando ricorre al latino, conferendo ai personaggi la stolida subalternità di un Renzo Tramaglino forte dei suoi quattro capponi.
Figlio in parte di un’attività di ricerca storica, Malavuci narra a tinte gialle una vicenda privata eppure paradigmatica di una società incarnata dalla risata di Donna Caterina, «un po’ villana, un po’ supponente, un po’ stupida», che d’un tratto può prorompere nella crudeltà di cui solamente l’ignoranza e la superstizione sono capaci, ed essere ricondotta a una rassicurante quotidianità dall’omertà e dalla noncuranza, per preservare i salvifici criteri dell’ostrica. Per il bene di tutti.

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  • Casa Editrice
    Ferrari Editore
  • Dettagli
    150 pagine
  • ISBN
    9791280242235