A quasi millecinquecento metri
Avevo nove anni
e l’inverno sapeva già
come si puniscono i silenzi.
In collegio
le giornate cadevano una sull’altra
come preghiere imparate a memoria:
sveglia, obbedienza, quiete.
Anche la fede aveva un orario
e io lo rispettavo
con le mani fredde
e la testa lontana.
Quella sera dissi no.
Non per sfida.
Non per coraggio.
Solo stanchezza.
Solo il bisogno confuso
di fermarmi.
Il no non fu una parola.
Fu una colpa.
Il portone si chiuse.
La montagna restò ferma.
Prima indurì l’aria,
poi il silenzio.
Il tempo smise di avere lancette
e cominciò a pesare nel corpo.
Avevo paura.
Non quella che grida,
ma quella che restringe.
Il freddo entrava piano,
come una lezione
che non avevo chiesto.
Non fu tutta la notte, dissero.
Solo un paio d’ore.
Ma un bambino non conta le ore:
resiste.
Il giorno dopo
la febbre parlò al posto mio.
Altri raccontarono per me.
Io tacqui,
perché avevo già imparato
che certe verità
non hanno spazio.
Otto anni dopo
tornai d’estate.
Il sole bruciava l’asfalto,
le braccia erano libere,
il motorino sapeva di fuga.
Il collegio era chiuso.
Vuoto.
Eppure il corpo ricordò
prima della mente.
Lo stesso freddo.
La stessa stretta.
Capii allora
che non si torna mai nei luoghi,
ma nelle memorie.
E che alcune esperienze
restano in attesa,
silenziose,
fino a trovarti scoperto.
Ripartii senza voltarmi.
Oggi so
che l’autorità senza ascolto
non educa,
che la fede imposta
congela,
e che la memoria che fa male
non è debolezza.
È verità
che resiste.