Cinque Cento Cinquantotto

E' stato ieri, ricordo. E ricordo bene.
Le mie parole sarebbero un leggiadro
artificio, un furbo incantesimo, fascinazione.
Avrebbero direzione di dardo, volontà di ariete,
carica di toro, coraggio di avanguardia.
Ma davvero aprire una botola è sedurre?
Far cigolare il proprio male così raramente
oleato equivarrebbe a miagolare?
Quando scrivo frequento un obitorio:
sotto il neon blu della mia mente
taglio l'escrescenza, scoperchio dal peso
la parte in ombra, poi, non contenta, circoscrivo
l'area di contagio ed individuato il guasto,
incido. Una fioritura le due sponde divaricate,
facili come le gambe facili, l'una di fronte
all'altra  e nel mezzo il pistillo adunco.
E allora, solo allora, asporto con grande
attenzione la malconcia inserzione.
Intorno va nauseabondo l'odore del
già detto che rapprende, acre e violento
alle narici, una lama. Scuro eritema.
Quando scrivo riesumo carcasse
che ancora dovevano macerare,
ergastolane ipogee, virus da quarantena
e questa nera cerimonia va avanti da
anni con salti dannosi quanto una pestilenza.
Quando scrivo secerno il mio veleno:
qualcosa qui dentro si acquieta  e si
avvita, ma poi ecco che in fretta nuovamente
si allaga della stessa sostanza, rubinetto
infestato. Il veleno esonda, liquido banditore,
un proiettile travestito da gendarme, bugiardo
come la maschera di menta che nasconde il
fiele allo sciroppo. Disorientante. 
Come uno schiaffo dato  sulla carne intontisce
prima che si  riceva dall'incornata
dell'ago il vero sopruso.