Due Cento sessantasette

Ogni volta  alle sette, la sera si arrende:
un acino è il tramonto, una nuova Eucaristia
il suo succo vermiglio, una vertigine l'attimo
in cui mi riaccendo. Io apro la porta alla tua
voce che migra da un paese senza più campanili,
il cui  cuore dalla rossa museruola non abbaia,
non cede, e sta funambolo un muro, Golia ferrato
che ancora non cade.  Ogni volta alle sette,
finiamo la scorta delle sognanti pazienze, una
puerpera eccitata è il minuto che lo precede, ma
il rancio è indiviso, non c'è più ombra nè odore
nella valigia, ad una parete che non ha il mio
cognome so di stoviglie opache imbalsamate
nella costellazione del disuso. Intorno mi balla
un mercato di giorni che sembrano uguali
a ieri, ad un anno fa, o forse a due: c'è un tacito
assenso alla mia deviazione, al diniego della
placida rassegnazione. Dicono sanerà
la follia che porta il tuo sangue. Ecco, mi praticano
il loro salasso: buttano via il veleno con le mani
giunte, non pregano, invocano solo un demonio
di cui vedo bianche le ali, per loro
un nascondiglio di corvo.