L'emigrato. Il ritorno. E la ricerca di pace

Ho mangiato pane da 100 forni,
mi sono saziato di kisci el kebab in cappadocia,
ho lavorato duramente in quelle terre.
pensando a te, isola mia.
Ho assaggiato tutti i couscous,
ho bevuto the alla menta e carcadè.
Ho lavorato duro in quei deserti,
solo col sogno di casa mia.
Isola mia, ti ho sognato milleottandue volte,
ti ho amata come una amante,
ma ero in lavoro negli States,
a mangiare quegli orribili "pudding"
pensando alla mia "panada e panadeddas".
Ho currachato nei barrios argentini,
avevo più amici io, a Buenos Aires,
quartiere Palermo, che un primo ministro.
Ho mangiato pane di 100 forni,
ma il civraxi e su carasau,
sono rimasti nel mio dna.
Ho ballato cielito lindo e galopera,
Maria Dolores e la malaguena,
ho imparato perfino a parlar portoghese
quando mi spedì la
corporation a cercare oro nel cucuracaca.
La mia faccia era di meticcio, il profilo di ebreo errante,
sembravo più che un sardo, un greco di Santorini.
Ho imparato il tango, il bolero, su ballu sardu é rimasto nei ammentos.
Ho passeggiato anche a madrid, roba
per pochi, ho perfino mangiato alla tour rose,
ho visitato il MOMA di New York City.
Ho installato tutte le luci di Brooklin e di Manhattan,
ho conosciuto Siro Maccioni, il re dei re degli chef toscani.
Ma la mia isola era tutt'altra cosa.
Dopo 10 anni, di lungo peregrinare, aver dedicato
una preghiera al Gesù di Ro de Janeiro,
ho fatto spola a Montreal per salutare alcuni
amici, e voilà, sono sbarcato a Golfo degli Aranci.
Ed ho viaggiato a finestrini chiusi, in attesa di
assapporare tutti i gusti perduti con la mia lontananza.
Addio Montevideo, addio Ciudad del Mexico,
addio Asuncion, addio Alessandria d'Egitto.
Dalla mia Sardegna, vi mando un abbraccio.