L’Urlo di Gaza

Sono venuto al mondo
non tra veli di luce,
ma tra i denti marci della notte,
dove il cielo vomita vetro
e la sabbia sa di midollo bruciato.

Sono nato,
ma nessuno ha cantato.
La placenta era maceria,
il mio primo vagito: una sirena lacerata.
Il cordone: filo spinato nel grembo.

Il mio nome non esiste nei libri,
né sulle labbra dei santi.
Sono il figlio del fango e del silenzio,
un fiore di piombo che non fiorisce:
grida.

Grida da viscere cave,
da gole disossate,
grida che l’occidente maschera
dietro una timeline sterile.

Ho imparato a morire prima di camminare.
A mordere l’ombra della mamma
che esplodeva nel mio abbraccio.

Padre,
la tua voce è polvere sulla mia lingua.
Padre,
sei rimasto inciso nel muro come un graffito di cenere.
Ti parlo in sogno,
tra le crepe del sonno.
Ma dormire è un lusso,
e i sogni, qui, hanno le ossa rotte.

Le mie lacrime non bagnano: scavano.
Sono calce viva sulle guance
e pioggia nera che non perdona.

Il mio urlo
non è solo dolore:
è il ventre stesso della Terra che si apre
e partorisce rabbia.

Sono carne senza futuro,
sono voce senza eco,
sono sangue che supplica
in una lingua che nessuno traduce.

Nella mia gola c’è un vulcano cieco.
Ogni respiro –
una mitraglia d’aria
che squarcia le stelle.

Il mio petto
è un tamburo di carne battuto dai morti,
la mia pelle –
uno spartito inciso da schegge e da preghiere
che nessuno ascolta.

Io non voglio pietà.
Voglio memoria.
Voglio la colpa cucita sul petto
di chi volta la faccia.
Di chi pesa la vita
come fosse una moneta da baratto.

L’Urlo di Gaza
non muore.
Si propaga.
È dentro ogni occhio che osa guardare,
in ogni cuore che ancora batte
senza fingere sordità.

E quando tutto sarà cenere,
io sarò lì
a sanguinare ancora
tra i versi mai letti
di chi non ha avuto infanzia.