La Chiesa e il Vetusto Poggio

“Perché, o gabbiani, posate sulla mia groppa?”, domandò la chiesa ai suoi aerei ospiti, ed aggiunse: “Ammirate il bel tramonto?”.
“Sì, siamo rientrati prima, questo imbrunire, e scrutiamo l’orizzonte, poiché non ci fidiamo delle intenzioni del vento ed aspettiamo di vedere come si comporterà il mare”, risposero assorti.
“Già. E’ tutto il giorno, infatti, che odo il vostro lamentoso richiamo ed anche gli uomini lo sentono, così che, alzando lo sguardo per cogliervi, capita talora che lo posino anche su di me. Se si preoccupassero delle procelle che li agitano come di quelle che li bagnano, anche voi, uccelli miei, piangereste di meno”, considerò il sacro tempio.
“Chissà, chissà”, si lamentarono i pennuti. Poi, a uno di loro venne da chiedere: “Ma dimmi, tu che sei santo luogo, come puoi avere una groppa al pari dei resistenti buoi o dei narvali incrostati?”.
“Perché anch’io trascino un grande peso: il peso del mondo, navigando e conducendolo pel vasto mare del Tempo sotto un cielo tempestoso, ma trapunto della speranza.”
Tacque la chiesa, tacquero i gabbiani.
Intanto, una barchetta andava a traina pel golfo, ignara di siffatti accenti.
“Uhm!”, ringhiò il grande poggio a forma di cinghiale che immergeva il grugno porcino nelle acque dall’altra parte della baia.
“Cos’hai tu da mugugnare, vecchio sasso?”, lo redarguì il mare.
“E sei proprio tu a chiedermelo? Tu che da secoli mi rodi le zanne e m’inaridisci le setole?”.
“Se la salsedine, ch’è il mio equoreo respiro, non ti garba, dovevi sorgere tra le tue sorelle colline. Io mi stendevo qui prima ancora che tu fossi selce”, lo ammonì il mare, mollandogli al contempo un cavallone sul muso.
“Non ce l’ho con te Acqua!”, s’affrettò a rabbonirlo il poggio che ben ne conosceva la furia devastatrice, e seguitò: “Ce l’ho con Lei! Lei che si lamenta di spostare non so quale mai pondo, mentre è cava come una nave incagliata, e s’ange di navigare pe’ i mari quando non la lambiscono neanche i tuoi spruzzi!”.
“Eppure, io non mi lamento affatto, vetusto masso, anzi, è con gioia che sostengo il mio carico, poiché mi rincuora la visione del Porto che m’attende. Mi pare, invece, che sia tu a lagnarti, ma di cosa mai, poi? Tu che sei stato nomato dagli uomini “Bengodi”, ch’è apostrofo di letizia; tu che ti fregi d’un antico, strenuo torrione, che celi gli ascosi resti dei templi remoti da te diletti prima che all’Umanità venisse rivelato il Credo ch’io custodisco; tu che tra le ricciute chiome verdeggianti osservi il fluire della bellezza che ne è una derivazione e che si rinnova ed arricchisce col germinare delle epoche. Che hai tu da crucciarti?”, l’interpellò pazientemente il santuario.
“Il nome non me lo sono scelto da me, ché altro e di diverso tenore mi fu assegnato agli albori! E quelle rocce squadrate a difesa mi pesano e mi schiacciano, mentre tra le accoglienti tenebre s’aggirano a disturbare il mio riposo i gemebondi fantasmi dei trucidati, imprigionati nelle rovine occultate e mucide. Quanto ai miei ricci, mi scalzano le ossa e mi scombussolano le giunture! Che ho da lagnarmi? Cos’ ho da rallegrarmi, vorrai dire!”, rombò il poggio.
“Eh, beh”, sospirò il campanile, “ora capisco perché gli uomini cacciano i cinghiali”, e scampanò per la Messa della sera.
“Ma che strani venti soffiano stasera!”, non poté far a meno di notare colui che si dedicava alla pesca sul suo legno: “Sarà meglio rientrare, dico io”, e fu così che risparmiò la vita ad una bella occhiata, con viscerale disappunto del Poggio, ma con la benedizione della chiesa.
E dei gabbiani.