Sei Cento Cinquantasei

Avrei voluto portarmi dentro i
tuoi estremi,i connotati, patrimonio,
corredo e pedigree.
Così impastati, ottenere la giusta
consistenza per l'annodato marsupiale,
fagottino di non più di pochi grammi,
imberbe caprettino roseo che schizza,
involucro alieno, il suo tump tump
dal robotico schermo sonda.
Che mi importava del nome in fondo?
Del nome? Del nome?
Avrei voluto solo accomodargli
il letto, questo letto di anse
morbide e mai calcate, sella
intonsa, rigide doghe su cui
non si è coricata l'insonnia
di nessuna notte di grida
e gengive sventrate.
Una plancia mai andata a
varo, estesa ma retrattile,
lumaca da rincasare in fretta.
Avrei voluto le tue generalità
risalirmi fino allo sterno con
rigurgiti e calci e vagabonde
nausee giramondo  e poi
gettarmi sulla sedia sorridendo
la finta fatica di portarmi addosso
il tuo te più piccolo, ancora informe
e già tutto te.  Avrei voluto
urlare  e sentire la gioia dolorosa
che squarcia, la pioggia rossa
da cui viene il mondo  e poi
raccogliere dal guazzabuglio ‐ brodetto
il nostro furfantello scampato alle
bombe distanza e  non si può.
Un solo pianto, squilletto di tromba:
Osanna all'obbediente soldatino
tutto sporco di noi.