Sei Cento Quarantanove

Sono venuta dopo il sogno
della notte a rendere omaggio alle
tue Mainarde: certo erano ugualmente
imprendibili e rosse d'autunno quando
papà sedeva tutto il sedile
posteriore‐ scanno  maneggiando
la fionda rudimentale.
Ma al mio arrivo il rosmarino era
alloro  alla testa delle tavole
ed il ponte sbieco
sul fiume  una svastica buona.
Intorno il fumo furetto delle case
immerse nel freddo, gestazione
furiosa delle vette i bargigli di
prima neve qua e là, cuscini.
Sono venuta a cercarti  lì, tra il ceppo
e la gola amaranto dei mosti già
avanzati in novelli, tra la facciavista
e le porte aggrappate. Ieri sono
venuta ad abbracciarti nella pacata
galleria fascista delle Poste sferzate
dalla pioggia, nel rintocco del
pomeriggio, fra i ragazzini zaino
e feste del corso, gelida cucchiaiata
tutta vetrine e promozioni, nei cucù
affacciati alle pareti. L'uomo del bar
ieri portava sul petto un bottone,
una coccinella lutto, una nera
cappella, un chicco di catrame
per venerare la donna in tailleur,
biondo Lare ecrù fra il treno dei
caffè e la pubblicità Toraldo.
Io non ho mai avuto un posto
dove appendere la tua fine, che fossero
una giacca, un bavero,  un cammeo
issato a prua, tipo una croce.
Ma sento sangue questa terra
che mi attraversa e capisco di
essere venuta dal tuo stesso anfratto:
dai covoni e dalle fascine shanghai
di legna Lego e scendendo dagli occhi
ecco, ho le tue stesse dita:
sottili, nervose etoiles.
Lombrichini da penna e da pane.